Cosa spetta alla vedova superstite del coniuge defunto: quando è prevista la pensione di reversibilità e a quanto ammonta.
Quando muore il marito, la moglie ha diritto alla pensione? È un’angosciosa domanda, che si pongono le donne che sono rimaste vedove, ed anche quelle che stanno per diventarlo, se il coniuge soffre di una malattia che non lascia speranze.
Per fornire un sostegno economico alle vedove esiste un apposito emolumento: è la pensione di reversibilità, un trattamento economico di natura previdenziale, che viene riconosciuto per legge alla moglie e ad altri stretti familiari superstiti del pensionato deceduto, o del lavoratore che è morto prima di aver conseguito il trattamento pensionistico.
In quest’ultimo caso la reversibilità viene definita pensione indiretta, ed è riconosciuta se il defunto aveva maturato i requisiti: occorrono 15 anni di anzianità contributiva e 5 anni di anzianità assicurativa, di cui almeno 3 riferiti al quinquennio precedente alla data del decesso.
Da quanto ti stiamo anticipando, avrai compreso che nella maggior parte dei casi quando muore il marito, la moglie ha diritto alla pensione, e ciò sia se il coniuge era già pensionato, sia se era ancora lavoratore. Ora vediamo più da vicino come funziona questo importantissimo istituto della pensione di reversibilità, o pensione indiretta.
Pensione di reversibilità e pensione indiretta
In caso di morte del pensionato o del lavoratore che ha già maturato i requisiti per il diritto alla pensione di vecchiaia o di invalidità, la vedova ha diritto a un trattamento pensionistico, erogato dall’Inps, che si definisce:
pensione di reversibilità, se liquidata in seguito alla morte del pensionato;
pensione indiretta, se liquidata in seguito alla morte dell’assicurato non titolare di pensione.
Pensione di reversibilità alla vedova: presupposti
La pensione di reversibilità viene riconosciuta alla vedova – a prescindere dall’età sua e di quella dell’ex marito – se ricorre una delle seguenti ipotesi:
il coniuge defunto era già titolare di pensione di vecchiaia o di anzianità o di inabilità;
al momento del decesso, il coniuge non ancora pensionato ma assicurato ed iscritto all’Inps aveva raggiunto i requisiti contributivi per le prestazioni di invalidità (5 anni di contribuzione di cui almeno 3 nel quinquennio precedente la data di morte) o quelli richiesti per la pensione di vecchiaia.
È importante sottolineare che il presupposto per ottenere la pensione di reversibilità in favore del coniuge non è necessario il requisito della convivenza a carico del marito (come invece accade per gli altri familiari), ma è sufficiente l’esistenza del rapporto matrimoniale con il coniuge defunto. Il convivente di fatto non è equiparato al coniuge ai fini della pensione di reversibilità, quindi non può beneficiarne.
Pensione di reversibilità: la domanda
La domanda di pensione di reversibilità spettante alla vedova nei casi che abbiamo descritto deve essere inoltrata all’Inps in via telematica, mediante:
il sito Inps, avvalendosi della procedura online (si accede con Spid, carta di identità elettronica o carta nazionale dei servizi);
telefono: tramite il contact center raggiungibile, al numero verde gratuito 803.164 da rete fissa o al numero 06.164164 da rete mobile;
patronati e tutti gli altri intermediari abilitati dall’Istituto.
Pensione di reversibilità al coniuge: a quanto ammonta
La quota della pensione di reversibilità del coniuge è determinata in base al trattamento pensionistico che sarebbe spettato al deceduto, varia come segue:
se vi è solo il coniuge senza figli: 60%;
coniuge e un solo figlio: 80%;
coniuge e due o più figli: 100%.
Riduzione pensione di reversibilità al coniuge: quando?
La pensione di reversibilità al coniuge, così come anche la pensione indiretta, può essere ridotta se il beneficiario supera determinati limiti di reddito, e precisamente:
reddito superiore a 3 volte il trattamento minimo annuo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld): la reversibilità è ridotta del 25%;
reddito superiore a 4 volte il trattamento minimo annuo Fpld: la reversibilità è ridotta del 40%;
reddito superiore a 5 volte il trattamento minimo annuo Fpld: la reversibilità è ridotta del 50%.
Pensione reversibilità coniuge separato o divorziato
La pensione ai superstiti spetta anche al coniuge separato, ma se era stato pronunciato l’addebito della separazione a suo carico, avrà diritto alla pensione di reversibilità solo se titolare di assegno alimentare o se il coniuge defunto aveva l’obbligo di versarlo.
L’ex coniuge divorziato, invece, mantiene il diritto alla pensione di reversibilità se non si è risposato ed è titolare dell’assegno divorzile, riconosciuto con sentenza del tribunale. Più problematico è il caso in cui l’ex coniuge del defunto aveva contratto un nuovo matrimonio dopo il divorzio: in tal caso c’è una potenziale concorrenza tra le due vedove, che rende necessaria la suddivisione dell’importo complessivo che sarebbe spettato all’ultima moglie. Per maggiori dettagli leggi “Pensione di reversibilità: come si divide fra due mogli?“.
Quali sono i requisiti per avere l’accompagnamento? Come comportarsi se la visita di revisione ha esito negativo?
Lo Stato aiuta le persone affette da gravi patologie dando loro un contributo mensile esentasse da poter utilizzare per i propri bisogni. Si tratta della famosa indennità di accompagnamento, riconosciuta a quanti soffrono di malattie talmente gravi da non poter deambulare o compiere in autonomia gli atti tipici di ogni giorno, come ad esempio mangiare o vestirsi.
Va detto che i sussidi dello Stato non sempre sono permanenti; ciò vale anche per l’accompagnamento, il quale potrebbe essere concesso “a termine”, ad esempio per il tempo necessario acché il malato possa guarire. Cosa fare in caso di revoca dell’indennità di accompagnamento? Scopriamolo insieme.
Che cos’è l’accompagnamento?
L’indennità di accompagnamento è una prestazione economica erogata mensilmente a favore dei soggetti, mutilati o invalidi totali (cioè, al 100%), per i quali è stata accertata:
l’impossibilità di deambulare senza l’aiuto di un accompagnatore, oppure
l’incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita.
L’indennità non fa reddito e non è pignorabile: si tratta, infatti, di una misura assistenziale ritenuta intoccabile dalla legge.
Inoltre, la predetta indennità prescinde da ogni requisito economico, cioè dal reddito posseduto dall’inabile, ed è indipendente dall’età.
Il pagamento viene sospeso in caso di ricovero a totale carico dello Stato per un periodo superiore a 29 giorni.
Indennità di accompagnamento: importo
Per il 2023, l’importo dell’indennità di accompagnamento è pari a 527,16 euro per dodici mensilità.
Chi riconosce l’accompagnamento?
L’accompagnamento è riconosciuto dall’Inps a coloro che, possedendo i requisiti di cui sopra, ne hanno fatto specifica domanda. Ciò significa che:
l’indennità non viene attribuita d’ufficio;
deve essere il diretto interessato ad attivarsi, facendo domanda all’Inps affinché sia sottoposta a valutazione.
Nello specifico, l’indennità di accompagnamento è riconosciuta a seguito dell’esito positivo della visita innanzi alla commissione medica a cui il malato decide spontaneamente di sottoporsi.
Come si fa domanda di accompagnamento?
Per fare domanda di accompagnamento è necessario chiedere al proprio medico di base di redigere e trasmettere all’Inps il certificato medico telematico in cui vengono attestate le patologie da cui il paziente è affetto e che, a suo dire, giustificherebbero il riconoscimento del beneficio.
Entro massimo 90 giorni dalla data di invio del certificato medico bisogna fare domanda all’Inps affinché il malato venga convocato a visita per l’accertamento dei presupposti che legittimano l’indennità di accompagnamento.
La domanda può essere presentata personalmente, accedendo alla propria area personale sul sito dell’Inps, oppure avvalendosi dell’assistenza di un patronato che, gratuitamente, si occuperà di inoltrare la richiesta all’ente previdenziale.
L’ultimo step è la convocazione a visita presso la Commissione medica dell’Inps, la quale valuterà le condizioni di salute del richiedente.
L’accompagnamento può essere revocato?
L’accompagnamento, anche se riconosciuto in un primo momento, può essere successivamente revocato; ciò avviene essenzialmente nelle seguenti occasioni, e cioè quando:
il beneficio è stato riconosciuto solamente “a termine”, per un determinato periodo di tempo (in genere due o tre anni), scaduto il quale occorre sottoporsi a una nuova visita “di revisione”. Se quest’ultima non dovesse confermare l’esito del primo accertamento, l’indennità verrebbe revocata. Si pensi all’accompagnamento riconosciuto al malato di cancro poi guarito;
pur essendo stato riconosciuto a tempo indeterminato, l’Inps sottopone il beneficiario a una visita “a sorpresa” da cui rileva che non sussistono più le condizioni per la permanenza dell’accompagnamento;
il soggetto rifiuta di sottoporsi ad accertamenti sanitari ritenuti indispensabili, oppure è assente alla visita di revisione senza valido motivo.
Cosa fare in caso di revoca dell’accompagnamento?
Contro la revoca dell’accompagnamento è possibile fare ricorso in tribunale per chiedere al giudice l’accertamento del requisito sanitario che giustifica la permanenza dell’indennità di accompagnamento.
Secondo la Corte di Cassazione [1], «ai fini della proponibilità dell’azione giudiziaria con la quale, in caso di revoca di una prestazione assistenziale, si intenda accertare la persistenza dei requisiti costitutivi del diritto alla prestazione di invalidità, non è necessario presentare una nuova domanda amministrativa».
Per la precisione, contro il verbale negativo con cui si è conclusa la visita di revisione, ovvero contro qualsiasi altro provvedimento che abbia deciso la revoca del beneficio, è possibile ricorrere al tribunale territorialmente competente entro il termine di sei mesi.
Al giudice dovrà essere chiesta la nomina di un Consulente tecnico d’ufficio (medico legale) che sottoponga l’istante a visita per la verifica della sussistenza delle condizioni sanitarie che giustificano l’erogazione dell’indennità d’accompagnamento.
In alternativa (ad esempio, nell’ipotesi in cui non si sia in tempo per fare ricorso), è possibile presentare una nuova domanda all’Inps, cominciando daccapo la procedura amministrativa vista sopra, e cioè facendo trasmettere il certificato medico telematico e, poi, inoltrando richiesta all’ente previdenziale.
Quali sono i benefici per l’acquisto di veicoli a motore concessi dalla legge 104 alle persone con handicap?
La legge 104 consente alle persone disabili di effettuare acquisti a condizioni agevolate. Ad esempio, è possibile ottenere speciali detrazioni sulle spese sostenute per la realizzazione degli interventi finalizzati al superamento e all’eliminazione delle barriere architettoniche, oppure sulla compera di veicoli utili al trasporto delle persone con handicap. È in questo contesto che si inserisce la seguente domanda: si può acquistare un’auto usata con la legge 104?
Com’è noto, le persone con disabilità motorie possono beneficiare di particolari condizioni per comprare un’auto: per la precisione, si può ottenere l’iva agevolata al 4% e la detrazione Irpef del 19% della spesa sostenuta. Ciò vale anche per i veicoli di seconda mano? A quali condizioni si può accedere ai benefici della 104? Scopriamolo insieme.
Quali sono i benefici per l’acquisto di veicoli?
La legge 104 prevede diverse agevolazioni anche per l’acquisto di veicoli, tra le quali:
detrazione Irpef del 19% della spesa sostenuta per l’acquisto;
Iva agevolata al 4% sull’acquisto;
esenzione dal bollo auto;
esenzione dall’imposta di trascrizione sui passaggi di proprietà.
Chi può acquistare veicoli a condizioni agevolate?
Possono usufruire di tali agevolazioni le persone che, in base al verbale dell’Inps oppure al provvedimento del giudice, risultino:
non vedenti;
sorde;
con disabilità psichica o mentale titolari dell’indennità di accompagnamento;
con grave limitazione della capacità di deambulazione o affetti da pluriamputazioni;
con ridotte o impedite capacità motorie.
Ovviamente, non occorre che il veicolo sia condotto dal disabile (ad esempio, un ceco non potrebbe mai) ma che l’acquisto sia fatto nel suo interesse.
In pratica, le agevolazioni sono riconosciute solo se i veicoli sono utilizzati, in via esclusiva o prevalente, a beneficio delle persone con disabilità.
Legge 104: si può comprare un’auto usata?
Le agevolazioni previste dalla legge 104 per l’acquisto di veicoli si applicano anche nel caso di auto usate, purché però siano comprate presso una concessionaria (o altro rivenditore autorizzato) e non da un privato.
In ogni caso, le agevolazioni per l’acquisto di un’auto usata con legge 104 vengono riconosciute se l’auto ha una cilindrata massima di 2.000 cm³ se a benzina e fino a 2.800 cm³ se diesel; se si tratta di vettura alimentata da un motore elettrico, occorre che abbia una potenza non superiore a 150 Kw.
Il veicolo non può avere più di 9 posti (incluso il conducente) e non può essere rivenduto prima di 2 anni dal momento dell’acquisto; in caso contrario, bisogna restituire le agevolazioni e gli sconti che sono stati concessi.
Va poi precisato che le agevolazioni della legge 104 si applicano anche alle riparazioni o ai nuovi adattamenti che occorre effettuare sul veicolo per renderlo idoneo al disabile, a prescindere dalla natura del venditore (concessionaria o privato).
Pertanto, si ha diritto all’iva agevolata e alla detrazione Irpef sulla spesa sostenuta per modificare la vettura, ad esempio per dotarla di gradini elettrici, apriporta automatici, accessori che agevolano l’accessibilità al veicolo per le persone in carrozzina, ecc.
In ogni caso, si ha sempre diritto all’esenzione del bollo e a quello riguardante la trascrizione del passaggio di proprietà, anche se l’acquisto dell’auto è avvenuto da un privato.
Quali sono le principali agevolazioni a cui può accedere il disabile che beneficia della legge 104? Quali veicoli si possono comprare?
L’ordinamento giuridico tutela le persone che, a causa della propria disabilità, patiscono difficoltà che li mettono in una condizione di svantaggio rispetto alle persone che, invece, non soffrono di particolari patologie. È in questo contesto che si inserisce il seguente quesito: si può acquistare una moto con la legge 104?
È più o meno noto a tutti che grazie alla 104 è possibile comprare un’auto con iva agevolata al 4%, se questa serve per il trasporto del disabile. Questa regola vale anche per motocicli e ciclomotori? Vediamo cosa dice la legge.
A cosa serve la legge 104?
La legge 104 raccoglie le principali misure di inclusione delle persone portatrici di handicap. Non si tratta di sussidi economici (per i quali occorre beneficiare dell’indennità di accompagnamento oppure di una certa percentuale di invalidità) bensì di agevolazioni che vanno dall’acquisto di beni di fondamentale importanza fino alla possibilità di godere di permessi retribuiti dal lavoro, per sé o per i propri familiari.
Lo scopo della legge 104 è quello di evitare l’emarginazione sociale della persona con handicap, favorendone quanto più possibile l’inclusione.
detrazione Irpef del 19% della spesa sostenuta per i sussidi tecnici e informatici;
Iva agevolata al 4% per l’acquisto dei sussidi tecnici e informatici;
detrazioni delle spese di acquisto e di mantenimento del cane guida per i non vedenti;
detrazione Irpef del 19% delle spese sostenute per i servizi di interpretariato dei sordi;
detrazioni delle spese sostenute per la realizzazione degli interventi finalizzati al superamento e all’eliminazione delle barriere architettoniche;
deduzione dal reddito complessivo dell’intero importo delle spese mediche generiche e di assistenza specifica;
tre giorni mensili di permesso retribuito dal lavoro;
congedo straordinario biennale retribuito, nel caso di assistenza al familiare convivente che sia affetto da handicap grave;
diritto di scegliere la sede di lavoro;
diritto di rifiutare il lavoro notturno.
Legge 104: quali sono le agevolazioni per l’acquisto di veicoli?
La legge 104 prevede diverse agevolazioni anche per l’acquisto di veicoli, tra le quali:
detrazione Irpef del 19% della spesa sostenuta per l’acquisto;
Iva agevolata al 4% sull’acquisto;
esenzione dal bollo auto;
esenzione dall’imposta di trascrizione sui passaggi di proprietà.
Possono usufruire di tali agevolazioni le persone:
non vedenti;
sorde;
con disabilità psichica o mentale titolari dell’indennità di accompagnamento;
con grave limitazione della capacità di deambulazione o affetti da pluriamputazioni;
con ridotte o impedite capacità motorie.
Ovviamente, non occorre che il veicolo sia condotto dal disabile (ad esempio, un ceco non potrebbe mai) ma che l’acquisto sia fatto nel suo interesse.
In altre parole, le agevolazioni sono riconosciute solo se i veicoli sono utilizzati, in via esclusiva o prevalente, a beneficio delle persone con disabilità.
Si può comprare una moto con la 104?
Veniamo ora al quesito principale dell’intero articolo: si può acquistare una moto con la legge 104?
Secondo l’ordinamento giuridico, le agevolazioni fiscali riservate alle persone con disabilità possono essere utilizzate anche per acquistare veicoli diversi dalle auto.
Per la precisione, con la 104 si possono comprare:
le motocarrozzette, cioè i veicoli a tre ruote per il trasporto di persone e in grado di avere al massimo 4 posti;
motoveicoli per il trasporto promiscuo, ovvero i veicoli a tre ruote per trasportare persone e cose con al massimo 4 posti;
motoveicoli per trasporti specifici, cioè veicoli a tre ruote per il trasporto di determinate cose o di persone in particolari condizioni. Tali veicoli devono essere muniti permanentemente di speciali attrezzature per tale scopo.
Non si può quindi acquistare un normale motociclo (cioè, la classica moto a due ruote) con la legge 104, non trattandosi di un mezzo di trasporto indispensabile per il disabile e, peraltro, evidentemente in contrasto con la sua condizione di portatore di handicap.
L’assistenza legale offerta dal difensore consigliato dal patronato va retribuita oppure è gratuita? Cosa succede se il giudice liquida le spese?
I patronati risolvono i problemi lavorativi e previdenziali dei cittadini che si rivolgono a loro. Spesso però l’attività di informazione e di assistenza garantita da questi enti non è sufficiente per affrontare le questioni più complesse. Si pensi, ad esempio, al verbale con cui l’Inps nega il riconoscimento della pensione d’invalidità o dell’indennità di accompagnamento; in casi del genere occorre necessariamente l’aiuto di un legale. È in questo contesto che si inserisce la seguente domanda: l’avvocato del patronato si paga?
Il quesito è molto ricorrente sul web, visto che l’assistenza assicurata da patronati e caf è normalmente gratuita. È quindi facile pensare che anche il difensore scelto per seguire la causa non debba essere pagato, in quanto retribuito dello Stato. Sin d’ora possiamo anticipare che non è così. Approfondiamo la questione spiegando se il legale assegnato dal patronato è davvero gratuito.
Patronato: cos’è e cosa fa?
I patronati sono organismi pubblici che offrono assistenza ai cittadini con particolare riferimento alle questioni che riguardano il lavoro, la pensione e, più in generale, la previdenza (richiesta di invalidità, accompagnamento, ecc.).
Il patronato è gratuito?
I servizi offerti dai patronati sono essenzialmente gratuiti. Ciò è possibile in quanto lo Stato rimborsa l’organismo per le attività svolte con il cosiddetto “sistema di punti pratica”, cioè una somma di denaro (generalmente da 35 a 175 euro) per ogni pratica elaborata.
Sono tuttavia dovuti dei piccoli contributi solo con riferimento ad alcune forme di assistenza, come ad esempio quella che riguarda la domanda di assegno familiare.
Patronato: quando serve l’avvocato?
Il patronato non può gestire ogni tipo di pratica solo con il personale a propria disposizione. Alcune volte, infatti, occorre l’assistenza qualificata di un legale, il quale è l’unico a poter patrocinare una causa in tribunale.
Si pensi ad esempio al giudizio che bisogna intraprendere contro il datore di lavoro che non ha versato i contributi oppure contro l’Inps che non vuole riconoscere l’accompagnamento.
In tutte queste ipotesi, cioè quando la strada amministrativa non è più percorribile ma bisogna intraprendere un percorso giudiziario, occorre necessariamente che intervenga un avvocato, il quale è generalmente suggerito dal patronato stesso. Chi paga la parcella del difensore? Scopriamolo.
L’avvocato del patronato è gratis?
Contrariamente ai servizi resi del patronato, la prestazione dell’avvocato va pagata. Il legale, infatti, è un libero professionista che ha diritto all’onorario esattamente come qualsiasi altro lavoratore autonomo (ingegnere, architetto, medico, ecc.).
Quindi, anche se l’avvocato viene consigliato dal patronato, la parcella dovrò comunque essere pagata, in quanto si tratta di un servizio che non viene offerto dall’organismo pubblico.
Qual è la parcella dell’avvocato del patronato?
L’onorario dell’avvocato del patronato andrà stabilito direttamente con il difensore, il quale ha l’obbligo di presentare al cliente un preventivo scritto all’interno del quale sono elencate analiticamente tutte le voci della propria parcella.
Ciò significa che il compenso dell’avvocato del patronato va pattuito con il libero professionista al momento del conferimento dell’incarico, cioè della sottoscrizione del mandato.
È però vero che, molte volte, è il patronato a stabilire un vero e proprio tariffario da proporre ai clienti. In questi casi deve ritenersi che i prezzi siano concordati con l’avvocato, il quale è disposto ad accettare un compenso minore a fronte delle pratiche che l’organismo gli procura.
È poi possibile che il difensore, liberamente, scelga di seguire la procedura gratuitamente, pattuendo un compenso solamente nel caso di esito positivo della controversia. Si tratta tuttavia di una libera scelta che non può essere imposta all’avvocato il quale, come detto, ha sempre diritto all’onorario.
L’avvocato del patronato va pagato se il giudice liquida le spese?
Un altro quesito molto ricorrente riguarda l’ipotesi in cui il giudice abbia già liquidato l’onorario dell’avvocato all’interno del proprio provvedimento (sentenza, decreto, ecc.). È il caso, ad esempio, del giudice che condanna l’Inps a pagare le spese legali del difensore della controparte.
Contrariamente a quanto molti pensano, anche in questo caso l’avvocato ha diritto a essere pagato, se gli accordi prevedevano un compenso maggiore rispetto a quello liquidato in sentenza.
Ad esempio, se l’avvocato aveva pattuito con il proprio cliente un onorario pari a 3mila euro e il giudice ne ha liquidati solo 2mila, i restanti mille euro dovranno comunque essere pagati.
Il lavoratore diabetico può conseguire anticipatamente il trattamento pensionistico a causa della patologia?
È vero che i lavoratori diabetici possono pensionarsi prima degli altri? Quanto affermato è vero, ma necessita di importanti precisazioni.
Molte persone diabetiche ottengono, a seconda del tipo e della gravità della patologia, nonché delle condizioni di salute generali, il riconoscimento di una determinata percentuale d’invalidità, generica (civile) o specifica (pensionabile). In base alla tipologia d’invalidità riscontrata, il lavoratore diabetico, in quanto invalido, può conseguire anticipatamente un trattamento pensionistico, un trattamento di accompagnamento alla pensione, come l’Ape sociale o, ancora, una maggiorazione dei contributi accreditati.
Non esiste, quindi, nel vero senso della parola, una pensione anticipata per diabete, ma chi è diabetico ed invalido può ottenere un trattamento di pensione anticipato.
Nel dettaglio, il lavoratore diabetico invalido può ottenere, in base alle condizioni di salute che gli sono riconosciute da un’apposita commissione medica ed al perfezionamento di ulteriori requisiti:
la pensione anticipata per i lavoratori precoci invalidi dal 74%;
l’Ape sociale a 63 anni per invalidi dal 74%;
l’assegno ordinario d’invalidità;
la pensione anticipata per invalidità pari o superiore all’80%;
la maggiorazione contributiva per invalidità del 75%;
la pensione per inabilità al proficuo lavoro o alle mansioni;
la pensione per inabilità permanente ed assoluta a qualsiasi attività lavorativa.
Invalidità generica e specifica
Abbiamo osservato che, per conseguire dei vantaggi sulla pensione, il lavoratore diabetico deve essere anche riconosciuto invalido da un’apposita commissione medica. Ma quando si viene riconosciuti invalidi? L’invalidità consiste nella riduzione della capacità lavorativa della persona (o della capacità di svolgere compiti e funzioni propri dell’età, per chi non è in età lavorativa), derivante da un’infermità o da una menomazione. Può essere generica, se riferita alla generalità delle attività lavorativa, oppure specifica, cioè riferita a mansioni confacenti all’esperienza, alle attitudini ed alle competenze dell’interessato [1].
L’invalidità non deve essere confusa con l’handicap, che è la condizione di svantaggio sociale derivante da un’infermità o una menomazione; nello specifico, è considerato portatore di handicap chi presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, sia stabile che progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa.
La condizione d’invalidità non deve essere confusa nemmeno con la non autosufficienza, che consiste nell’impossibilità di compiere gli atti quotidiani della vita senza assistenza permanente, o nell’impossibilità permanente di camminare senza l’aiuto di un accompagnatore.
Diabete e invalidità Inps
Qual è la percentuale d’invalidità riconosciuta per il diabete e si tratta d’invalidità generica o specifica? In realtà, le condizioni riconosciute dalla commissione medica dipendono dal tipo di patologia riscontrata, nonché dalla commissione che effettua gli accertamenti, che può essere preposta al riconoscimento dell’invalidità civile o dell’invalidità pensionabile- specifica: si è esaminati da quest’ultima commissione solo a seguito di presentazione della domanda di una prestazione previdenziale, come l’assegno ordinario d’invalidità.
In base alle tabelle Inps, ai lavoratori diabetici sono riconosciute le seguenti percentuali d’invalidità pensionabile:
diabete mellito con complicanze gravi: dal 91% al 100%;
diabete mellito scompensato con complicanze di grado moderato: dall’81% al 90%;
diabete mellito in mediocre compenso con complicanze di grado moderato: dal 71% all’80%;
diabete mellito in buon compenso con complicanze di grado moderato: dal 61% al 70%;
diabete mellito scompensato con complicanze di grado lieve: dal 51% al 60%;
diabete mellito in mediocre compenso con complicanze di grado lieve: dal 41% al 50%;
diabete mellito tipo 2 insulino trattato non complicato scompensato: dal 31% al 40%;
diabete mellito in buon compenso con complicanze di grado lieve: dal 21% al 30%;
diabete mellito tipo 1 in mediocre compenso glicemico e/o con complicanze solo strumentalmente rilevate: dall’11% al 20%;
diabete mellito tipo 2 insulino trattato e diabete mellito tipo 1 non complicato: dal 6% al 10%;
diabete mellito tipo 2 non complicato: dallo 0 al 5%.
In base a quanto osservato, le percentuali d’invalidità e la possibilità di conseguire vantaggi pensionistici dipendono dal tipo di diabete diagnosticato. Possono comunque influire ulteriori condizioni riscontrate dalla commissione.
Il riconoscimento dell’invalidità pensionabile può comportare il diritto, unitamente al perfezionamento delle condizioni richieste dalla legge, alla pensione di vecchiaia anticipata per invalidità dall’80%, all’assegno ordinario d’invalidità ed alle pensioni d’inabilità (non civile).
Diabete e invalidità civile
Di seguito, le percentuali relative all’invalidità civile che possono essere riconosciute ai diabetici:
diabete insipido renale: dallo zero al 46%;
diabete mellito tipo 1° o 2° con complicanze micro macroangiopatiche con manifestazioni cliniche di medio grado (classe iii): dal 41 al 50%;
diabete mellito insulino dipendente con mediocre controllo metabolico e iperlipidemia o con crisi ipoglicemiche frequenti nonostante terapia (classe iii): dal 51 al 60%;
diabete mellito complicato da grave nefropatia e/o retinopatia proliferante, maculopatia, emorragie vitreali e/o arteriopatia ostruttiva (classe iv): dal 91 al 100%.
Assume rilevanza ai fini dell’attribuzione dell’indennità di accompagnamento, anche l’impossibilità di compiere addirittura uno di quegli atti rientranti nella vita quotidiana, avente i caratteri dell’inerenza costante alla persona e una funzione essenziale per le ripercussioni sulla vita e sulla salute in rapporto agli atti della vita giornaliera che esso rende possibili [2].
Il riconoscimento dell’invalidità civile può comportare il diritto, unitamente al perfezionamento delle condizioni richieste dalla legge, a prestazioni di assistenza, come la pensione d’invalidità e d’inabilità civile, nonché all’Ape sociale, alla pensione anticipata precoci e alla maggiorazione contributiva.
Pensione di vecchiaia anticipata per diabete
Il lavoratore diabetico, se dipendente del settore privato ed in possesso di un’invalidità pensionabile pari o superiore all’ 80%, può conseguire la pensione di vecchiaia anticipata per invalidità [3].
Nel 2023 la pensione si può raggiungere a 60 anni e 7 mesi di età per gli uomini ed a 55 anni e 7 mesi di età per le donne, previa attesa di una finestra di 12 mesi, in quanto si applicano gli incrementi alla speranza di vita. Questa pensione è, infatti, un trattamento di vecchiaia e non consiste in un trattamento diretto d’invalidità.
Per ottenere il trattamento è richiesto un requisito contributivo minimo, pari a 20 anni di contributi. Sono sufficienti 15 anni di contributi per i beneficiari delle cosiddette deroghe Amato, ossia per coloro che possiedono:
15 anni di contribuzione accreditati al 31 dicembre 1992;
l’autorizzazione al versamento dei contributi volontari rilasciata entro il 24 dicembre 1992;
25 anni di anzianità contributiva, 15 anni di versamenti di lavoro dipendente (presso l’Assicurazione generale obbligatoria AGO o un fondo sostitutivo o esonerativo) e 10 anni lavorati in modo discontinuo.
La possibilità di ottenere la pensione di vecchiaia anticipata per invalidità è prevista soltanto per i lavoratori dipendenti del settore privato, iscritti cioè all’Assicurazione generale obbligatoria o ai fondi di previdenza sostitutivi della stessa, in possesso di contribuzione al 31 dicembre 1995 [4]. Il beneficio non è fruibile da parte dei lavoratori autonomi o dei dipendenti pubblici.
Il riconoscimento dello stato di invalidità in misura non inferiore all’80% deve essere effettuato dagli uffici sanitari dell’Inps. La commissione medica deve valutare la riduzione in modo permanente della capacità di lavoro in occupazioni confacenti alle attitudini dell’assicurato e non l’invalidità civile (invalidità generica).
Assegno ordinario d’invalidità per diabete
Se al lavoratore diabetico è riscontrata una capacità lavorativa specifica ridotta a meno di un terzo (superiore, cioè, al 66,67%, arrotondato al 67%), in presenza dei requisiti contributivi minimi questi ha diritto all’assegno ordinario d’invalidità da parte dell’Inps. Nel dettaglio, l’interessato deve possedere, presso una delle gestioni Inps (fondo pensione lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti, coltivatori, gestione Separata, ex Inpdap, ex Enpals…) almeno 5 anni di contributi, di cui 3 versati nell’ultimo quinquennio.
L’assegno è calcolato in base ai contributi versati, proprio come la pensione, ma senza maggiorazioni (come invece avviene per la pensione per assoluta e permanente inabilità a qualsiasi attività lavorativa) e viene ridotto se il reddito supera di 4 volte il trattamento minimo (sussistono ancora, per questo trattamento, i limiti di cumulo col reddito da lavoro). L’assegno ordinario d’invalidità è compatibile con l’attività lavorativa, al contrario della pensione per assoluta e permanente inabilità a qualsiasi attività lavorativa.
Pensione d’invalidità civile per diabete
Se la persona affetta da diabete, di età compresa tra i 18 e 67 anni di età, non possiede contribuzione o possiede pochissimi contributi, può aver diritto a un altro assegno a carico dell’Inps collegato allo stato d’invalidità civile, l’assegno di assistenza per invalidi civili parziali. Nel dettaglio, questo trattamento, noto come pensione di invalidità civile, spetta se il proprio reddito risulta inferiore a soglie predeterminate annualmente con legge, che per l’anno 2023 risultano essere pari a 5.391,88 euro e l’invalidità civile- generica riconosciuta è compresa tra il 74% ed il 99%.
L’assegno di assistenza ammonta, per il 2023, a 313,91 euro al mese, viene erogato per 13 mensilità e non è reversibile [5]. Si tratta di un reddito esente da Irpef, per il quale, è richiesto lo stato di inoccupazione, senza svolgere alcuna attività lavorativa. Risulta, altresì, incompatibile con ogni altra pensione di invalidità.
Al compimento di 67 anni, la pensione d’invalidità civile viene convertita automaticamentein assegno sociale sostitutivo.
Occorre avere cittadinanza italiana, per gli stranieri comunitari si richiede l’iscrizione all’anagrafe del comune di residenza, per quelli extracomunitari il permesso di soggiorno di almeno un anno, nonché in entrambi i casi la residenza stabile ed abituale sul territorio italiano.
Ape sociale e pensione anticipata precoce per diabete
Oltre alla pensione d’invalidità civile, se il lavoratore affetto da diabete è riconosciuto invalido in misura almeno pari al 74% può ottenere due importanti benefici pensionistici:
la pensione anticipata precoce, che consente di pensionarsi con 41 anni di contributi, se si possiedono almeno 12 mesi di contribuzione da effettivo lavoro versati prima del compimento di 19 anni di età;
l’Ape sociale, un anticipo pensionistico a carico dello Stato, che permette di uscire dal lavoro con un minimo di 63 anni di età e 30 anni di contributi (28 per le donne con almeno 2 figli, 29 per le donne con un figlio).
Pensione d’inabilità per diabete
Se il lavoratore affetto da diabete è invalido al 100%, o inabile, può fruire di numerosi benefici, che dipendono, però, dal tipo di invalidità o inabilità riconosciuta:
pensione d’inabilità civile, o pensione per invalidi civili totali: la prestazione è concessa alla persona con diabete, se riconosciuta un’invalidità civile del 100%, con un reddito personale annuo sino a 17.920,00 euro (il valore si riferisce all’anno 2023); la prestazione è compatibile, sino al limite di reddito, con l’assegno ordinario d’invalidità; per ottenere il trattamento, che ha lo stesso ammontare della pensione d’invalidità civile (313,91 euroriferito all’anno 2023), non è richiesto lo stato di disoccupazione;
pensione d’inabilità al lavoro: per questo trattamento non è sufficiente il riconoscimento dell’invalidità civile in misura pari al 100%, ma è richiesto il riconoscimento dell’inabilità permanente ed assoluta a qualsiasi attività lavorativa; bisogna, inoltre, che l’interessato possieda almeno 5 anni di contributi, di cui 3 accreditati nell’ultimo quinquennio; il trattamento è calcolato allo stesso modo della pensione, ma è aggiunta una maggiorazione contributiva (per approfondire: Pensione d’inabilità al lavoro);
pensione d’inabilità al proficuo lavoro e alle mansioni per i dipendenti pubblici: la pensione d’inabilità, senza maggiorazione, spetta anche ai dipendenti pubblici affetti da diabete che sono riconosciuti inabili alle mansioni, o al proficuo lavoro (per proficuo lavoro si intende la capacità di prestare servizio in maniera continuativa ed efficace); a seconda della categoria di appartenenza e del tipo d’inabilità, sono richiesti un minimo di 15 o 20 anni di contributi;
Contributi figurativi per la pensione
Con un’invalidità superiore al 74%, il lavoratore diabetico può avere, inoltre, diritto al beneficio pensionistico dei contributi figurativi, o più precisamente della maggiorazione contributiva: nel dettaglio, per i lavoratori con invalidità superiore al 74%, per ogni anno lavorato alle dipendenze di un datore di lavoro pubblico o privato sono accreditati 2 mesi di contributi figurativi in più, sino ad un massimo di 5 anni. L’agevolazione può essere riconosciuta dal 2002 in poi.
La maggiorazione è utile anche per raggiungere il requisito contributivo, o la maggiore anzianità in assenza del requisito anagrafico, per la pensione anticipata o di anzianità.
Il beneficio nella misura di due mesi per ogni anno di lavoro fino ad un massimo di cinque anni è riconosciuto entro l’anzianità contributiva massima di 40 anni per il calcolo della pensione con il sistema di calcolo retributivo.
I due mesi di contributi in più non sono rilevanti nel calcolo della quota di pensione contributiva (per le pensioni a calcolo misto), né per il calcolo della pensione da liquidare integralmente con il sistema contributivo: questo, perché nel calcolo contributivo l’importo della pensione è determinato moltiplicando il montante individuale dei contributi (cioè il totale dei contributi accreditati, rivalutati) per il coefficiente di trasformazione relativo all’età al momento del pensionamento.
Come fare domanda per ottenere la dilazione di pagamento dei contributi previdenziali accumulati: condizioni, numero rate, scadenze.
Molte persone che hanno accumulato un notevole importo di contributi previdenziali non versati si chiedono come rateizzare i debiti con l’Inps.
La procedura, che ti spiegheremo in questo articolo, è molto diversa da quella stabilita per i debiti fiscali maturati nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, o per le cartelle di pagamento emesse da Agenzia Entrate Riscossione: ci sono regole particolari da seguire per dilazionare i pagamenti dei contributi senza attendere l’arrivo degli accertamenti esecutivi e delle cartelle esattoriali.
Debiti con Inps: come sorgono e cosa comportano
I contributi previdenziali e assistenziali che bisogna versare periodicamente all’INPS hanno scadenze tassative. Lo sanno bene le imprese che versano le somme per i propri dipendenti e i professionisti che pagano i contributi per se stessi.
L’Istituto, grazie alle procedure automatizzate, è molto efficiente nel rilevare i ritardi, e fa pervenire ai morosi degli appositi avvisi e solleciti di pagamento. Se neanche a seguito di questi avvertimenti il contribuente ottempera, l’INPS emette un avviso di addebito delle somme dovute, e affida il recupero all’Agenzia Entrate Riscossione, che potrà procedere al pignoramento dei beni del debitore inadempiente.
Prima di arrivare a questa fase, però, è possibile rateizzare il debito con l’Inps presentando un semplice domanda in modalità telematica. Ora ti spieghiamo come fare.
Rateizzazione debiti Inps: condizioni
Ecco quali sono le condizioni essenziali da rispettare per poter rateizzare i tuoi debiti con l’Inps:
la domanda di rateazione deve essere proposta prima che l’Inps abbia emesso e notificato un formale avviso di addebito delle somme dovute; da quel momento in poi non è più possibile rateizzare con Inps le somme riportate nell’atto, ma si potranno definire gli importi (contributi, sanzioni, interessi e spese di notifica e di procedura) con le modalità indicate nell’avviso stesso;
l’istanza deve essere omnicomprensiva, ossia deve riguardare l’intero ammontare dei contributi dovuti, e maturati, alla data di presentazione della domanda, nei confronti di tutte le Gestioni amministrate dall’Inps (per lavoratori dipendenti, autonomi, artigiani e commercianti, agricoli, co.co.co, Gestione Separata, ex gestioni INPDAP e altri Enti per dipendenti pubblici, ENAM, lavoratori dello spettacolo, sportivi professionisti, ecc.).
Quindi la rateazione amministrativa si può attivare anche oltre la scadenza non rispettata per il versamento spontaneo dei contributi dovuti, ma solo fino a quando non è pervenuto un avviso di addebito, che ha valore di titolo esecutivo (al pari dell’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate o di una cartella di pagamento) e pertanto comporta il recupero coattivo delle somme; a quel punto, l’unica possibilità è quella di rateizzare il debito con Agenzia Entrate Riscossione.
Inoltre, diversamente da quanto avviene per le rateizzazioni con le Agenzie fiscali, con l’Inps non è possibile operare una selezione, per decidere di rateizzare solo alcuni contributi e non altri: quindi, o si rateizza tutto il dovuto, o niente.
Il discrimine per verificare le suddette condizioni è rappresentato dalla data di presentazione della domanda di rateazione: pertanto, se in seguito sorgono altri contributi non pagati, si potranno rateizzare anche quelli. C’è solo un limite: non potranno essere rateizzati i debiti sorti da una precedente rateizzazione non pagata.
Rateizzazione debiti INPS: domanda
La domanda di rateizzazione dei debiti INPS deve essere presentata in via telematica sul sito dell’INPS, personalmente o tramite un intermediario abilitato (commercialisti, Caf, Enti di patronato).
Una volta entrati con le credenziali di autenticazione (Spid, Carta di identità elettronica o Carta nazionale dei servizi), bisogna compilare online un apposito modello, nel quale occorre inserire i propri dati e quelli degli eventuali dipendenti interessati dall’evasione, o omissione, contributiva realizzata dal datore di lavoro. Gli importi dovuti sono già precompilati dall’Inps.
La domanda contiene anche un atto di impegno per il pagamento rateizzato dei contributi, e vale come espressa rinuncia a proporre, con ricorso in opposizione, tutte le eccezioni relative all’esistenza e all’ammontare del debito.
Così, in sostanza, la domanda di dilazione costituisce anche un’ammissione, un riconoscimento, dei debiti contributivi maturati sino a quel momento: per essi si rinuncia preventivamente all’instaurazione di un giudizio civile per opporsi al pagamento.
Dilazione Inps: quante rate?
Se la domanda presentata è completa e formalmente corretta, l’INPS riconosce la dilazione, emanando un piano di ammortamento del debito fino a 24 rate. Il numero di rate concesse dipende dall’importo complessivo dei debiti rateizzati (ad esempio, fino a 2mila euro si può arrivare ad un massimo di 6 rate e non oltre).
Questo limite massimo non è inderogabile: il contribuente può chiedere il prolungamento della rateazione fino a 36 rate (che dovrà essere autorizzato dal Ministero del Lavoro) se si verificano circostanze eccezionali, costituite da (l’elencazione è tassativa, e non estensibile a casi analoghi):
calamità naturali;
procedure concorsuali instaurate nei confronti del debitore (fallimento, liquidazione coatta amministrativa, ecc.);
carenza temporanea di liquidità finanziaria derivante da ritardato introito di crediti maturati nei confronti dello Stato, Enti Pubblici o Pubbliche Amministrazioni, o da ritardata erogazione di contributi e finanziamenti pubblici;
crisi aziendale, riorganizzazione, ristrutturazione e riconversione dei processi produttivi;
trasmissione dei debiti contributivi agli eredi del contribuente deceduto;
carenza temporanea di liquidità finanziaria legata a difficoltà economico-sociali, territoriali o settoriali.
Il Ministero del Lavoro può autorizzare il prolungamento della dilazione concessa fino a 60 rate, nei casi di oggettiva incertezza dell’obbligo contributivo o di fatto doloso del terzo.
L’accoglimento della domanda di dilazione, con l’avvenuto pagamento della prima rata, consente di ottenere il Durc regolare.
Rateizzazione INPS per somme da restituire
Può accadere che l’Inps richieda al cittadino la restituzione di somme già erogate ma non spettanti: è il caso, ad esempio, di un trattamento pensionistico liquidato in misura superiore al dovuto, o di un’indennità di disoccupazione (NaspI) attribuita in assenza dei presupposti legittimanti.
Anche in queste situazioni – come ha chiarito una sentenza della Corte Costituzionale – è possibile richiedere ed ottenere la restituzione in modalità rateale, tenendo conto delle concrete e attuali capacità economiche dell’interessato nel rimborsare il dovuto: infatti spesso si tratta di importi ingenti, accumulati con erogazioni costanti nel corso degli anni, e che è impossibile restituire in unica soluzione.
Va comunque tenuto presente che non sempre la restituzione è dovuta, specialmente se le somme sono state percepite in buona fede e le erogazioni risalgono a più di 10 anni prima. Per maggiori informazioni, leggi “Cosa fare se l’INPS vuole i soldi indietro”.
Come funziona la tutela del patrimonio delle persone disabili dopo la scomparsa dei familiari che le assistono: gli strumenti offerti dalla legge sul Dopo di noi.
Una delle più grandi preoccupazioni per i genitori di un figlio affetto da grave disabilità è quella di sapere come riuscirà a cavarsela al mondo quando gli adulti che se ne prendono cura non ci saranno più. Il «dopo di noi», nella prospettiva dei genitori e degli altri familiari stretti, si riferisce al periodo di vita successivo alla loro scomparsa, quando il disabile rischia di rimanere privo dell’assistenza necessaria. Per fronteggiare questa grave esigenza, nel 2016 è stata emanata la legge sul Dopo di noi: ora ti forniamo la spiegazione di cosa prevede e ti illustriamo quali strumenti di tutela del patrimonio offre.
Cos’è la legge sul dopo di noi?
La legge sul dopo di noi[1] è stata emanata allo scopo di introdurre strumenti pubblici e privati che favoriscano il benessere, l’inclusione sociale, l’autonomia e l’assistenza delle persone affette da disabilità grave. Con questa legge, quindi, si attua una progressiva presa in carico del disabile già durante l’esistenza in vita dei genitori e nel pieno rispetto della sua volontà.
Legge sul dopo di noi: a chi è rivolta?
I destinatari della legge in questione sono le persone affette da disabilità grave prive di entrambi i genitori oppure che non possono contare sul sostegno della propria famiglia. Per disabile si intende colui che ha una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabile o progressiva, tale da diminuirne l’apprendimento, la vita di relazione e l’integrazione lavorativa.
Ovviamente, è importante che la condizione di disabilità venga accertata da apposite commissioni mediche presso le Asl competenti e non deve essere determinata dal naturale invecchiamento oppure da patologie connesse alla senilità.
Legge sul dopo di noi: il fondo per l’assistenza ai disabili
Per sostenere e tutelare le persone affette da disabilità grave è stato istituito un Fondo (presso il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) finalizzato a:
adottare programmi di intervento e supporto volti ad impedire che i disabili vengano ricoverati presso gli istituti;
realizzare, ove necessario, una soluzione abitativa extrafamiliare;
creare di soluzioni alloggiative di tipo familiare;
accrescere la consapevolezza del disabile e sviluppare le loro abilità e competenze per la gestione della vita quotidiana e per il raggiungimento dell’autonomia e dell’indipendenza.
Per accedere al fondo è necessario aderire a uno dei progetti attivi a livello regionale, previa valutazione effettuata da un gruppo di professionisti. La valutazione è importante per definire un progetto su misura che metta al centro il disabile e individui gli specifici sostegni di cui ha bisogno, a partire dalle prestazioni sanitarie e sociali. Se il disabile non è in grado di manifestare autonomamente la propria volontà, saranno i genitori (oppure chi ne cura gli interessi) a provvedere. Il progetto prevede, inoltre, un costante monitoraggio del disabile dopo la morte dei genitori o del tutore.
Va detto, comunque, che sono ancora poche le regioni che hanno già dato esecuzione ai progetti. A dimostrazione del fatto che ad oggi l’intera procedura prevista dalla legge sul dopo di noi necessiti di alcune modifiche onde evitare un rallentamento, o peggio ancora, uno stanziamento delle risorse.
Inoltre, per incentivare il coinvolgimento dei privati, la legge sul dopo di noi ha previsto anche una serie di agevolazioni fiscali in favore delle persona affette da disabilità grave.
Legge sul dopo di noi: cosa prevede
Le misure previste dalla legge consentono al disabile di ottenere tutta l’assistenza di cui ha bisogno. In altri termini, l’obiettivo è quello di garantire l’autonomia e indipendenza delle persone disabili consentendogli, ad esempio, di continuare a vivere nella propria casa.
In particolare, sono previsti strumenti:
pubblici, al fine di favorire percorsi di deistituzionalizzazione ed evitare l’isolamento, vale a dire che il disabile venga ricoverato in un istituto;
privati: consistono nel destinare il patrimonio (o anche solo un bene) alla cura, alla protezione e all’assistenza del disabile grave (ad esempio, il trust, il vincolo di destinazione e i fondi speciali). Per questi strumenti privati, la legge prevede l’esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni e altre agevolazioni fiscali, a condizione che siano finalizzati esclusivamente a realizzare l’inclusione sociale, la cura e l’assistenza dei disabili gravi.
Vediamo ora, nel dettaglio, gli strumenti principali previsti a tutela del disabile:
La costituzione del trust
Il trust (parola inglese che significa fiducia) è uno strumento con il quale il titolare di beni o diritti (detto disponente) li separa dal suo patrimonio e li trasferisce ad una persona fisica o giuridica (detto trustee), affinché li amministri nell’interesse di un beneficiario o, comunque, per un fine specifico.
Facciamo un esempio per spiegare meglio questo concetto: due genitori hanno due figli, di cui uno affetto da disabilità grave. Decidono, pertanto, di destinare il loro patrimonio (ad esempio la casa) per l’assistenza del figlio disabile.
Il trust può essere istituito:
con testamento;
con atto pubblico.
L’atto istitutivo deve essere sottoscritto dal disponente e contenere il regolamento del trust e i beni o diritti conferiti (beni immobili, beni mobili iscritti in pubblici registri, denaro, crediti, partecipazioni societarie, ecc. ).
In base alla legge sul dopo di noi, il trust dura fino alla morte della persona con disabilità grave. Ti è chiaro, quindi, che con il trust viene salvaguardato il patrimonio da utilizzare per il figlio disabile in quanto si crea un vincolo di destinazione sui beni conferiti (cioè sono finalizzati all’assistenza del disabile) e non potranno essere aggrediti dai creditori personali del disponente, del beneficiario o del trustee stesso.
Infine, tutta la documentazione riguardante il trust (ad esempio, atti, documenti, istanze, certificazioni ecc.) è esente dall’imposta di bollo.
La costrituzione di un vincolo di destinazione
La legge sul dopo di noi prevede la possibilità di attribuire – mediante atto pubblico – un vincolo di destinazione su beni immobili e beni mobili iscritti in pubblici registri al fine di garantire un’adeguata protezione ai beni essenziali per la vita e per la serenità del disabile (ad esempio la casa).
Per rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione, l’atto pubblico deve essere trascritto nei pubblici registri ove sono iscritti i beni oggetto dell’atto di destinazione.
Inoltre, la massa patrimoniale conferita è distinta e separata rispetto alla restante parte del patrimonio del costituente e i beni vincolati potranno essere utilizzati solo per tutelare gli interessi del disabile.
La legge ha previsto poi due soggetti, quali:
il gestore che deve agire adottando ogni misura idonea a salvaguardare i diritti del disabile;
il controllore che è tenuto a verificare le obbligazioni imposte all’atto di costituzione.
I fondi speciali
Accanto al trust e ai vincoli di destinazione, la legge prevede anche la costituzione di fondi speciali disciplinati con contratto di affidamento fiduciario. Con il contratto di affidamento fiduciario, un soggetto (detto affidante o fiduciante) trasferisce ad un altro soggetto (affidatario o fiduciario) dei beni o diritti affinché vengano gestiti a vantaggio dei beneficiari, in funzione di un determinato programma che, oltre a vincolare le parti, preveda anche una durata, degli obblighi, delle condizioni e delle precise modalità.
I beni o i diritti che costituiscono il fondo speciale rappresentano una massa autonoma e distinta dal patrimonio del fiduciario, aggredibile solo dai creditori qualificati dalla destinazione.
Come per gli altri istituti, l’affidamento deve essere finalizzato alla protezione degli interessi del beneficiario, ossia del disabile grave, e deve inoltre prevedere un soggetto preposto al controllo delle obbligazioni poste a carico del fiduciario.
Legge sul dopo di noi: esenzioni e agevolazioni
La legge dopo di noi prevede espressamente che i suddetti strumenti di tutela patrimoniale – finalizzati all’inclusione sociale, alla cura ed all’assistenza delle persone con disabilità grave – vadano esenti totalmente dall’imposta sulle successioni e donazioni.
Tuttavia, l’esenzione dall’imposta è prevista a condizione che:
l’istituto (trust, vincolo di destinazione o fondo speciale) sia costituito con atto pubblico;
l’istituto persegua esclusivamente il fine dell’inclusione sociale, della cura e dell’assistenza delle persone con disabilità grave. Detta finalità deve essere espressamente indicata nell’atto istitutivo;
l’atto istitutivo identifichi in maniera chiara i soggetti coinvolti, i ruoli di ciascuno, le funzionalità, i bisogni specifici e le attività assistenziali necessarie al disabile;
l’atto istitutivo individui gli obblighi del trustee, del gestore o del fiduciario in favore della persona disabile;
sull’atto istitutivo siano indicate le misura idonea a salvaguardare i diritti del disabile;
l’atto istitutivo riporti l’indicazione della durata dell’istituto, il cui termine finale generalmente coincide con la morte del disabile beneficiario;
l’atto istitutivo riporti l’indicazione della destinazione del patrimonio residuo.
Legge sul dopo di noi: polizze assicurative
Tra le agevolazioni previste in favore dei disabili gravi c’è anche la detraibilità delle spese sostenute per le stipula di polizze assicurative, cioè per le assicurazioni aventi ad oggetto il rischio di morte e finalizzate alla tutela delle persone con disabilità. In pratica, l’importo fiscalmente detraibile dall’imposta Irpef del premio per le suddette assicurazioni è pari a 750 euro, sempre a condizione che siano state sottoscritte a tutela della persona con disabilità grave.
Anche i lavoratori stagionali hanno diritto alla NASpI
Lavori in un parco divertimenti aperto solo durante l’estate, oppure ogni anno vieni assunto per la raccolta delle fragole, o per la vendemmia e, terminata la stagione, il tuo rapporto di lavoro cessa. Ti chiedi se chi fa un lavoro stagionale ha diritto alla disoccupazione perché, terminata la stagione, termina anche il tuo contratto di lavoro e resti privo di reddito. Ebbene, la legge riconosce, proprio per i lavoratori stagionali, la NASpI stagionale, con regole particolari e a determinate condizioni. Vediamo dunque in questa breve guida come accedere alla NASpI stagionale, a chi spetta, quali sono i requisiti per beneficiarne, quanto dura e a quanto ammonta.
Il lavoro stagionale
Per lavoro stagionale si intende quell’impiego che dura solo per un determinato periodo dell’anno. Esso si caratterizza dunque per la sua durata limitata nel tempo e si presenta soprattutto nei settori che sono soggetti a periodicità e ciclicità quali quello turistico, agricolo e alimentare. Si pensi, ad esempio, a coloro che sono impiegati presso bar, gelaterie, alberghi e villaggi turistici, oppure addetti alla gestione di stabilimenti balneari, a ancora, braccianti agricoli o personale impiegato nella raccolta e lavorazione dei prodotti della terra (ad esempio, raccoglitori di fragole, addetti alla sgusciatura di frutta secca, vendemmiatori).
Si tratta, dunque, di rapporti di lavoro a tempo determinato, di durata variabile da 15 giorni a sei mesi.
La NASpI stagionale
La NASpI rappresenta una misura a sostegno del reddito a favore di quei lavoratori che abbiano involontariamente perso l’occupazione.
Come per la NASpI ordinaria, anche l’accesso alla NASpI stagionale è subordinato al possesso di determinati requisiti, quali:
trovarsi in stato di disoccupazione involontaria
avere maturato 13 settimane di contributi versati nei 4 anni precedenti il contratto stagionale
avere maturato almeno 30 giornate di lavoro nei 12 mesi precedenti la cessazione del contratto
non aver usufruito della NASpI in passato
essere cittadino italiano, oppure straniero o extracomunitario in possesso di regolare permesso di soggiorno di lunga durata
A quanto ammonta?
L’importo spettante a titolo di NASpI viene definito in ragione della retribuzione imponibile previdenziale degli ultimi quattro anni, divisa per il totale delle settimane di contribuzione. Il risultato di questa equazione deve essere poi moltiplicato per il coefficiente 4,33.
L’importo erogato a titolo di NASpI subisce poi una riduzione progressiva a decorrere dal primo giorno del quarto mese di fruizione.
Quanto dura?
La durata della NASpI dipende dal numero di settimane coperte da contribuzione negli ultimi quattro anni ed è pari alla metà del numero di tali settimane. In ogni caso, la NASpI non può essere riconosciuta per un periodo superiore a 24 mesi.
La NASpI spetta a decorrere dal giorno successivo alla data di presentazione della domanda e, in ogni caso, non prima dell’ottavo giorno dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Come si accede alla NASpI?
La domanda di NASpI deve essere presentata, a pena di decadenza, entro 68 giorni dalla cessazione del contratto stagionale, mediante procedura online collegandosi al sito Inps con Spid, Cie o Cns, oppure chiamando il Contact Center dell’INPS.
La domanda può essere inoltre presentata personalmente dall’interessato, oppure rivolgendosi ad un Patronato specializzato.
È possibile mandare via il conduttore portatore di handicap? Quali sono i metodi per evitare lo sfratto o, almeno, per ritardarne l’esecuzione?
Chi non può permettersi un’abitazione di proprietà deve necessariamente provvedere in modo diverso. La soluzione è, solitamente, quella di prendere una casa in affitto, magari in attesa dell’assegnazione di un alloggio all’interno dell’edilizia residenziale pubblica (le case popolari, in pratica), qualora le condizioni economiche non consentano di far fronte troppo a lungo al pagamento di un canone mensile. È in tale contesto che si pone il seguente quesito: si può sfrattare un inquilino disabile beneficiario della legge 104?
La domanda è piuttosto frequente in rete e, per questa ragione, è importante fornire una risposta certa. L’argomento, in effetti, contrappone due esigenze: quella del proprietario a ottenere il rilascio dell’immobile per l’inadempimento contrattuale dell’inquilino; quella del conduttore il quale, a causa delle proprie condizioni di salute, non può permettersi di perdere la casa. Quale delle due necessità prevale? Vediamo cosa dice la legge.
Quando si può sfrattare l’inquilino?
L’inquilino si può sfrattare essenzialmente in due ipotesi:
quando non paga il canone mensile ovvero gli altri oneri accessori previsti nell’accordo. Si parla in questi casi di sfratto per morosità;
quando il contratto è giunto al termine ma l’immobile non è stato restituito al proprietario. Si tratta del cosiddetto sfratto per finita locazione.
In entrambi i casi la legge consente di fare ricorso al tribunale e di ottenere, in breve tempo, un provvedimento con cui si ingiunge al conduttore di lasciare la casa, pena l’intervento dell’ufficiale giudiziario e delle forze dell’ordine.
Si può sfrattare l’inquilino disabile con la 104?
È possibile sfrattare l’inquilino disabile che beneficia della legge 104, cioè che è stato formalmente riconosciuto come portatore di handicap.
La legge, infatti, non prevede eccezioni per le persone invalide, disabili o handicappate: l’inadempimento del contratto di locazione comporta sempre lo sfratto, al ricorrere ovviamente dei presupposti indicati nel precedente paragrafo.
Le proprie condizioni di salute possono però ritardarne l’esecuzione. Vediamo in che modo.
Inquilino disabile: come evitare lo sfratto?
La legge [1] consente all’inquilino moroso di mettersi in regola con il pagamento degli arretrati al fine di evitare lo sfratto.
Per la precisione, la morosità può essere sanata direttamente in sede giudiziale, per non più di tre volte nel corso di un quadriennio, se il conduttore, alla prima udienza, versa l’importo dovuto per tutti i canoni scaduti e per gli oneri accessori maturati sino a tale data, maggiorato degli interessi legali e delle spese processuali.
Se il pagamento non avviene direttamente in udienza, il giudice, dinanzi a comprovate condizioni di difficoltà del conduttore, può assegnare un termine non superiore a 90 giorni. Si tratta del cosiddetto termine di grazia.
In buona sostanza, qualunque inquilino moroso (non solo il disabile) può evitare lo sfratto pagando il debito:
alla prima udienza;
entro 90 giorni dalla prima udienza, se però dimostra al giudice di non aver potuto pagare prima a causa di oggettive difficoltà, le quali possono essere di diverso tipo, sia economiche (ad esempio, l’improvviso licenziamento) che di salute (l’inaspettato insorgere di una malattia, ecc.).
Ma c’è di più. Secondo la medesima disposizione di legge, la morosità può essere eccezionalmente sanata, per non più di quattro volte nel corso di un quadriennio, nel termine di 120 giorni dall’udienza, a condizione però che l’inadempienza:
non si sia protratta per oltre due mesi;
sia conseguenza delle precarie condizioni economiche del conduttore, insorte dopo la stipulazione del contratto e dipendenti da disoccupazione, malattie o altre gravi, comprovate condizioni di difficoltà.
L’inquilino disabile con la legge 104 può quindi ottenere un termine di 120 giorni per mettersi in regola con i canoni arretrati, ma deve dimostrare che il suo inadempimento, non superiore a due mensilità, sia stato causato dall’improvvisa comparsa della patologia: la legge dice infatti che le precarie condizioni economiche devono essere “insorte dopo la stipulazione del contratto”.
Il conduttore che è già portatore d’handicap non potrà pertanto invocare tale condizione come esimente per la propria situazione di morosità.
Inquilino con 104: come sospendere lo sfratto?
Nel solo caso di sfratto per finita locazione di immobile ad uso abitativo, l’inquilino può ottenere la sospensione della procedura fino a un termine massimo di 18 mesi, ma solo se abbia compiuto i 65 anni di età oppure egli o uno dei componenti del nucleo familiare (o anche il convivente da almeno sei mesi) sia portatore di handicap o malato terminale [3].
Pertanto, al di là della possibilità di chiedere il termine di grazia per poter pagare tutti gli arretrati, il disabile che sia stato riconosciuto formalmente dalla legge 104 come portatore di handicap può chiedere il differimento dell’esecuzione materiale dello sfratto fino a 18 mesi, di modo che abbia tutto il tempo per poter trovare una nuova abitazione.
Che cos’è la pensione ai superstiti? Quali sono i diritti del convivente che non ha registrato l’unione in Comune?
La reversibilità è la prestazione economica che spetta ai familiari del pensionato oramai deceduto, purché però sussistano determinai requisiti. Con il presente articolo risponderemo a questa precisa domanda: il convivente ha diritto alla reversibilità? Vediamo cosa dice la legge.
Cos’è la pensione di reversibilità?
La pensione di reversibilità è la prestazione previdenziale che viene corrisposta ai familiari di persona deceduta che, in vita, percepiva la pensione.
Rientra nella più ampia categoria delle cosiddette “pensioni ai superstiti” insieme alla pensione indiretta. Vediamo qual è la differenza.
Reversibilità e pensione indiretta: differenza
La pensione ai superstiti è una prestazione economica riconosciuta dall’Inps ai familiari di un soggetto deceduto.
Il trattamento pensionistico può essere di due tipi:
pensione di reversibilità, se il deceduto percepiva la pensione di vecchiaia poiché in possesso sia del requisito contributivo che di quello anagrafico;
pensione indiretta, se il deceduto era un assicurato e, quindi, si trovava ancora in età lavorativa.
Chi ha diritto alla pensione di reversibilità?
Sono diverse le persone ad avere diritto alla pensione di reversibilità, primi fra tutti coniuge e figli. Col passare del tempo, grazie al susseguirsi di leggi, interpretazioni giurisprudenziali e amministrative, la platea dei beneficiari si è sempre più estesa. Vediamo nel dettaglio a chi spetta la reversibilità.
Il coniuge ha diritto alla reversibilità?
La reversibilità spetta innanzitutto al coniuge del pensionato deceduto.
Secondo l’Inps [1], la prestazione spetta anche al coniuge separato con addebito, il quale quindi non ha diritto al mantenimento ma conserva quello alla reversibilità.
Più complessa è la situazione in caso di divorzio; in questa ipotesi, la reversibilità spetta ugualmente, purché:
il coniuge superstite sia titolare dell’assegno divorzile;
il coniuge superstite non abbia contratto nuove nozze;
l’iscrizione all’Inps del defunto sia precedente alla data della sentenza di divorzio.
Se invece è stato ildeceduto a contrarre nuove nozze, la reversibilità spetta sia al nuovo coniuge che al coniuge divorziato, con quote da definire in base alla durata di ciascun matrimonio [2].
Ai figli spetta la pensione di reversibilità?
Anche i figli hanno diritto alla reversibilità, ma solo al ricorrere di alcune condizioni. Per la precisione, hanno diritto alla pensione di reversibilità:
i figli minorenni alla data del decesso del genitore;
i figli inabili al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso, indipendentemente dall’età;
i figli maggiorenni che studiano, sono a carico del genitore al momento del decesso, non lavorano, frequentano scuole o corsi di formazione professionale equiparabili ai corsi scolastici e sono minori di 21 anni;
i figli maggiorenni che studiano, sono a carico del genitore al momento del decesso, non lavorano, frequentano l’università e sono minori di 26 anni.
Dunque l’assegno spetta al massimo fino al compimento del 26° anno di età, ad eccezione dei figli inabili al lavoro per cui non ci sono limiti.
Il convivente ha diritto alla pensione di reversibilità?
Il semplice convivente non ha diritto alla pensione di reversibilità, in quanto la sua posizione non è equiparabile né a quella del coniuge né a quella di chi è unito civilmente.
Hanno invece diritto alla reversibilità le coppie che, pur non essendo sposate, hanno formalmente registrato la propria convivenza presso l’ufficio anagrafe del Comune in cui risiedono.
Tanto è stato stabilito dalla Corte di Cassazione [3], secondo cui hanno diritto alla reversibilità:
il coniuge;
la parte dell’unione civile;
il convivente riconosciuto al Comune.
Alla luce di ciò, possiamo affermare che le coppie di fatto, costituite dalle persone non sposate che non hanno nemmeno dichiarato la propria convivenza presso il Comune di residenza, non hanno diritto alla pensione di reversibilità.
L’inabilità al lavoro spetta a chi abbia una certificata assoluta e permanente menomazione fisica o mentale che gli impedisca di svolgere qualsiasi attività lavorativa
Sei affetto da una patologia, più o meno rara, che ti impedisce di svolgere regolarmente il tuo lavoro, perché ad esempio ti comporta notevoli fatiche nel compiere le azioni della vita quotidiana, oppure ti provoca forte stress psicologico, o ancora implica lo svolgimento di terapie continuative e particolarmente pesanti. Espletare dunque il tuo lavoro diventa sempre più difficile e ti chiedi se la tua condizione possa rientrare tra quelle che consentono il riconoscimento del diritto all’inabilità al lavoro e, soprattutto, se tu abbia diritto in mancanza della possibilità di svolgere attività lavorativa a qualche sussidio per poterti comunque mantenere. Cerchiamo allora di fare chiarezza sul punto e di capire, in questo breve articolo, chi ha diritto all’inabilità al lavoro e come si possa accedere alla pensione di inabilità.
L’inabilità al lavoro
Per inabilità al lavoro si intende la presenza di una menomazione fisica o psichica che impedisca l’assoluto svolgimento di qualsivoglia attività lavorativa.
È importante, innanzitutto, distinguere tra inabilità assoluta e permanente a qualsiasi proficuo lavoro e inabilità assoluta e permanente alle mansioni svolte. Mentre, in quest’ultimo caso, il lavoratore dovrà essere esonerato dallo svolgimento delle mansioni che non è più in grado di espletare e adibito a mansioni compatibili con il proprio stato di salute medicalmente accertato e conformemente alle prescrizioni dettate dal medico specialista presso il quale è in cura e dal medico del lavoro, in caso invece di inabilità assoluta e permanente a qualsiasi proficuo lavoro, l’interessato verrà dichiarato incapace (a causa appunto di una malattia fisica o mentale) a svolgere qualsiasi mansione relativa a qualsiasi tipo di lavoro e, pertanto, completamente incapace a lavorare e, in ragione di ciò, avrà diritto di beneficiare della pensione di inabilità, non potendosi altrimenti procurare un reddito.
L’iter per il riconoscimento dell’inabilità al lavoro prende avvio mediante la trasmissione da parte del proprio medico curante di un certificato medico introduttivo all’Inps, per via telematica.
L’invio di tale certificato dovrà quindi essere seguito dalla presentazione, sempre all’Inps, da parte dell’interessato, della domanda per il riconoscimento dello stato di invalidità. La domanda può essere proposta personalmente, accedendo alla propria area personale tramite Spid, oppure avvalendosi di un patronato o associazione di categoria di propria fiducia.
Successivamente, affinché venga riconosciuta e certificata l’inabilità al lavoro, è necessario essere sottoposti a visita medico-legale da parte di una apposita commissione medica integrata, composta da sanitari dell’Asl e da un medico dell’Inps.
In materia di invalidità civile, l’Inps ha pubblicato specifiche Linee Guida, utili sia nella valutazione della percentuale di inabilità in sede di visita medico-legale, sia nell’individuazione delle patologie classificabili come limitanti, ai fini della capacità lavorativa.
La pensione di inabilità
La legge prevede espressamente, a favore di coloro che si trovano nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa per infermità non dipendente da causa di servizio, il diritto di beneficiare di un particolare trattamento pensionistico, detto pensione di inabilità.
Per accedere alla pensione di inabilità è necessario essere in possesso dei seguenti requisiti:
inabilità totale permanente al lavoro medicalmente certificata
reddito inferiore alla soglia stabilita per legge ogni anno (per il 2023 detta soglia è pari a 17.920 euro)
età compresa tra i 18 e i 67 anni
cittadinanza italiana (per gli stranieri comunitari è sufficiente l’iscrizione all’anagrafe del comune di residenza e per gli extracomunitari il permesso di soggiorno di almeno un anno)
avere la residenza stabile e abituale sul territorio italiano
La pensione di inabilità viene erogata dall’Inps su 13 mensilità e il suo importo varia di anno in anno in relazione agli adeguamenti del costo della vita. L’ammontare della pensione per invalidi civili totali per il 2023 è pari a 313,91 euro, con limite di reddito, come detto, pari a 17.920 euro.
Come la domanda per il riconoscimento dell’ invalidità, anche la domanda di pensione può essere presentata direttamente online sul sito dell’Inps, accedendo alla propria area personale tramite Spid, oppure avvalendosi dell’ausilio di un patronato o un’associazione di categoria.
Presupposto necessario per proporre la domanda di pensione è che la minorazione sia stata riconosciuta nel verbale rilasciato dall’apposita commissione medico-legale al termine dell’accertamento sanitario.
Presentata la domanda, bisognerà attendere l’invio da parte dell’Inps del verbale di invalidità civile, tramite raccomandata a.r. o pec, se l’utente ha fornito un proprio indirizzo di posta elettronica certificata.
Chi si propone come amministratore di sostegno deve necessariamente convivere o risiedere nello stesso Comune del beneficiario?
L’amministrazione di sostegno serve ad aiutare le persone che, a causa di una patologia fisica o psichica, non possono provvedere ai propri interessi, anche solo temporaneamente. Al ricorrere di tali circostanze, infatti, è possibile chiedere al giudice la nomina di una persona che possa offrire ausilio, sostituendosi al beneficiario nel compimento di alcuni atti, come ad esempio il ritiro della pensione o l’acquisto di farmaci e vestiario.
Molto spesso la scelta dell’amministratore ricade su un familiare, come il coniuge o il figlio. Cosa succede se, però, tali persone abitano in una città diversa? In altre parole, l’amministratore di sostegno può avere residenza diversa da quella del beneficiario? Vediamo cosa dice la legge.
Ricorso per amministratore di sostegno: come si fa?
Il ricorso per la nomina di un amministratore di sostegno può essere proposto:
dall’interessato stesso, cioè dal soggetto che ha bisogno di aiuto;
dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado e dagli affini entro il secondo grado;
dal tutore o curatore;
dal pubblico ministero.
Non occorre necessariamente l’assistenza di un avvocato: è possibile presentare personalmente l’istanza, anche avvalendosi di uno dei modelli presenti sui siti web istituzionali dei vari tribunali d’Italia.
In alternativa, è possibile fare ricorso per la nomina di amministratore di sostegno direttamente presso gli uffici postali abilitati, al costo di 6,20 euro.
Chi può essere nominato amministratore di sostegno?
Il giudice tutelare nomina l’amministratore di sostegno scegliendo tra il coniuge non separato, il convivente, il padre, la madre, il figlio o il fratello o la sorella, il parente entro il quarto grado ovvero il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata.
Nel caso in cui non si possibile designare una di queste persone, il giudice è libero di sceglierne un’altra, sempre nell’interesse del soggetto bisognoso di assistenza.
Ad esempio, molti tribunali scelgono l’amministratore di sostegno all’interno di elenchi nei quali sono iscritti professionisti (per lo più avvocati) che hanno seguito specifici corsi di formazione per rivestire questo ruolo.
In ogni caso, prim’ancora di scegliere tra il coniuge e i parenti più prossimi, il giudice deve tener conto della volontà espressa dallo stesso beneficiario, cioè dalla persona che ha bisogno di assistenza.
Secondo la legge, l’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata.
In pratica, in previsione di un’eventuale malattia, ognuno può indicare in anticipo quale soggetto dovrà essere nominato come proprio amministratore di sostegno dal giudice.
L’amministratore di sostegno deve avere la stessa residenza del beneficiario?
Nessuna norma di legge impone che l’amministratore di sostegno debba avere la stessa residenza del beneficiario, cioè del soggetto che si intende tutelare.
Ciò significa che può essere nominato amministratore non solo una persona non convivente ma perfino chi vive in un’altra città.
La diversa residenza può però essere d’intralcio alla nomina per un diverso motivo: se il soggetto che si propone come amministratore di sostegno non dimostra in che modo può essere d’aiuto al beneficiario, è probabile che il giudice non accolga la richiesta, preferendo affidare l’incarico a chi, trovandosi vicino, possa essere più presente.
Se il figlio che abita a Roma fa ricorso per essere nominato amministratore di sostegno dell’anziano padre che vive a Napoli, è probabile che il giudice rigetti la richiesta, prendendo in considerazione la nomina di un familiare o di altro soggetto che viva nello stesso Comune del beneficiario.
Insomma: la residenza non è elemento imprescindibile per la nomina dell’amministratore di sostegno, ma è chiaro che si tratta di una circostanza che il giudice valuterà attentamente per garantire la miglior tutela possibile al beneficiario.
Amministrazione di sostegno e residenza diversa: qual è il giudice competente?
Secondo la Corte di Cassazione [1], il giudice competente per la nomina dell’amministratore di sostegno è quello del luogo ove il beneficiario ha la dimora abituale, a prescindere dall’effettiva residenza anagrafica. Insomma: il domicilio prevale sulla residenza.
Ciò significa che:
se il beneficiario risiede e dimoraabitualmente nello stesso luogo, il giudice competente sarà indiscutibilmente quello della residenza;
se il beneficiario risiede formalmente in un Comune ma, in realtà, dimora altrove (ad esempio, a casa del figlio), il giudice competente è quello del posto ove il beneficiario realmente vive.
La bassa partecipazione ai corsi formativi proposti dalla piattaforma Siisl mette in luce le mancanze del reddito di cittadinanza. Gli abusi passati e il lavoro nero potrebbero spiegare la situazione.
Il Reddito di Cittadinanza non è servito a creare lavoro, né i percettori avevano un effettivo interesse ad un posto. Lo dimostrano i dati: sugli oltre 180mila ex percettori del Reddito di cittadinanza considerati “occupabili” che hanno perso il sussidio tra luglio e agosto, solo poco più di un sesto (circa 33mila) si sono iscritti alla nuova piattaforma Siisl (il Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa) che offre corsi di formazione e posti di lavoro ai percettori del Supporto per la formazione e il lavoro.
Tutto ciò mette in luce le vere mancanze del RdC: alla gente non è mai interessato lavorare. L’interesse era rivolto solo al sussidio economico in sé.
Ma perché questo errore di valutazione? Perché il reddito di cittadinanza ha fallito? Si possono formulare solo ipotesi ma alcune di queste sono abbastanza convincenti.
L’errore della campagna governativa
Il Reddito di Cittadinanza è stato un programma sociale ampio ed ambizioso, con l’obiettivo di aiutare le persone in difficoltà economica ad accedere a un sostegno finanziario e a formazione professionale. Ma forse l’errore è stato proprio farlo passare non già come un normale sostegno al reddito per i non abbienti (come lo era la misura di cui ha preso il posto, il cosiddetto “Reddito di inclusione”) ma come uno strumento che avrebbe risolto il problema dell’occupazione. “Abbiamo abolito la povertà” era lo slogan governativo dell’epoca. Ma se davvero vuoi abolire la povertà non puoi limitarti a distribuire pesci: devi insegnare a pescare. Cosa che col RdC non è successo.
Perché così pochi ex percettori hanno partecipato ai corsi di formazione? Quali sono le ragioni dietro a questa mancanza di interesse?
Il lavoro in nero
Secondo gli esperti questo assenteismo si spiega con l’ampio ricorso al lavoro nero: gli ex precettori del Rdc erano impiegati nell’economia sommersa. Pertanto, messi di fronte alla prospettiva di doversi attivare impiegando il loro tempo libero in corsi di formazione, è probabile che vi abbiano rinunciato.
Le finte separazioni
Un’altra spiegazione del ridotto numero di soggetti che si rivolgono alla piattaforma Siisl sta nei numerosi abusi compiuti in passato: si pensi alle coppie che hanno attuato separazioni fittizie solo per avere un proprio Isee e rientrare nei parametri della misura assistenziale. In Campania il tasso delle coppie separate che percepivano il Rdc è più alto di circa il 12% rispetto alla media nazionale. La crisi coniugale era solo di facciata.
Queste truffe potrebbero aver influito sulla scarsa partecipazione attuale alle offerte di lavoro.
Cosa succederà dal 1 gennaio 2024?
La legge di Bilancio 2023 ha limitato la durata del RdC per i percettori occupabili a soli 7 mesi, a partire dal 1° gennaio 2024. Alcuni ex percettori potrebbero preferire la presa in carico dei servizi sociali comunali per continuare a percepire il RdC fino a fine anno, per poi passare all’Assegno di inclusione.
Oltre ai corsi formativi, la piattaforma propone Progetti utili alla collettività (Puc) che permettono ai cittadini di partecipare a servizi per la comunità, guadagnando un sussidio. La piattaforma mira anche a migliorare la connessione tra domanda e offerta di lavoro attraverso un sistema unificato.
Qual è la prossima sfida per la piattaforma? Mentre i numeri sono importanti, la vera sfida risiede nella qualità dei corsi offerti. Non basta avere una piattaforma con molti corsi; questi devono essere utili e preparare davvero le persone a entrare nel mondo del lavoro.
Tirocinio formativo: in caso di interruzione o termine del rapporto, allo stagista spetta la Naspi?
Sono sempre più numerosi i giovani che, quando sono prossimi al termine del loro ciclo di studi, ricevono una proposta di tirocinio formativo da parte di aziende pubbliche e private. Ma se per qualsiasi causa il rapporto si interrompe, chi fa lo stage ha diritto alla disoccupazione, ossia alla Naspi, la nuova assicurazione sociale per perdita di impiego, che dal 2015 ha sostituito la vecchia indennità?
Stage o tirocinio formativo: come funziona
Lo stage, o tirocinio formativo, è un percorso di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, che si attiva con una convenzione tra un ente promotore che lo organizza (università, scuola superiore, centri per l’impiego, centri di formazione professionale, cooperative sociali, ecc.) ed il soggetto ospitante (imprese, aziende, enti pubblici, cooperative, fondazioni, studi professionali, ecc), presso il quale si svolge.
Il tirocinio deve prevedere un progetto formativo, che indica la durata, l’orario, gli obiettivi e gli obblighi del tirocinante, che deve essere assicurato presso l’Inail contro gli infortuni sul lavoro.
Anche se il tirocinio, o stage, comporta l’inserimento all’interno di una realtà lavorativa, non costituisce un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato: è un rapporto temporaneo, finalizzato all’acquisizione di conoscenze professionali.
Non trattandosi di un rapporto di lavoro, a chi svolge il tirocinio non sono accreditati i contributi previdenziali presso l’Inps; però è prevista in favore del tirocinante la corresponsione di un’indennità per le attività svolte, di importo non inferiore a 300 euro lordi mensili (le delibere regionali possono prevedere importi più alti), che non è considerata retribuzione ai fini previdenziali.
Naspi: quando spetta e a quanto ammonta?
La Naspi è l’indennità di disoccupazione destinata alla generalità dei lavoratori dipendenti che hanno subito la perdita involontaria del lavoro per varie ragioni: licenziamento, dimissioni per giusta causa, crisi aziendale, fine del contratto a termine, e perciò hanno acquisito lo stato di disoccupazione.
Per percepire la Naspi è necessario avere un minimo di 13 settimane di contributi accreditati nei 4 anni precedenti. Durante il periodo di percezione della disoccupazione spetta l’accredito dei contributi figurativi da parte dell’Inps.
L’importo dell’indennità di disoccupazione è pari al 75% del reddito medio mensile del lavoratore percepito negli ultimi 4 anni, sino al tetto massimo di 1.227,55 euro. Se il reddito medio superava questo valore, bisogna aggiungere il 25% della differenza tra il reddito medio e il tetto massimo di 1.227,55, senza però superare 1.335,40 euro: questo è l’importo mensile massimo della Naspi.
Il lavoratore che durante il periodo di percezione della Naspi instaura un rapporto di lavoro dipendente o parasubordinato, percependo un reddito annuale superiore a 8.145 euro, decade dall’indennità di disoccupazione; altrimenti la Naspi viene proporzionalmente ridotta.
Stage o tirocinio: spetta la Naspi?
Siccome allo stagista o tirocinante non vengono versati contributi previdenziali da parte del datore di lavoro presso l’Inps, non avviene nemmeno l’accredito di contributi destinati a finanziare la Naspi: pertanto, al termine del tirocinio, l’indennità di disoccupazione non spetta.
Viceversa, se un beneficiario della Naspi inizia a svolgere uno stage o un tirocinio professionale, oppure percepisce premi o sovvenzioni per fini di studio o addestramento professionale, non sussiste lo svolgimento di un’attività lavorativa retribuita: quindi l’indennità percepita per il tirocinio o stage è cumulabile con la Naspi.
Se, invece, l’interessato è titolare di una borsa di studio o un assegno di ricerca (assegnisti e dottorandi di ricerca con borsa di studio), l’importo della Naspi verrà ridotto in base a quanto percepito, poiché si tratta di un’attività assimilata a quella lavorativa (infatti, ai dottorandi e agli assegnisti è riconosciuta l’indennità Dis-coll spettante ai collaboratori), e ci sarà la decadenza dalla Naspi se i compensi derivanti da tale attività oltrepassano la soglia annuale di 8.145 euro, pena la decadenza dalla Naspi.
L’Italia si prepara a una svolta nel panorama previdenziale con l’introduzione della Quota 104. Il nuovo sistema pensionistico porta con sé cambiamenti significativi, sfide e opportunità.
La storia recente delle pensioni in Italia ha conosciuto Quota 100, Quota 102 e, infine, Quota 103. Ma ora anche quest’ultima è destinata a tramontare. Dal 1° gennaio 2024, sarà introdotta la Quota 104, che permette ai lavoratori di andare in pensione a 63 anni di età, purché abbiano 41 anni di contributi. Il nuovo sistema potrebbe portare incentivi per chi sceglie di rimanere nel mondo del lavoro più a lungo. D’altro canto, chi tenta di accorciare i tempi potrebbe trovarsi di fronte a penalizzazioni, una strategia che ricorda il cosiddetto “bonus Maroni”.
La trasformazione delle opzioni pensionistiche
Ape sociale e Opzione donna stanno per essere messe da parte. Invece, vedremo l’emergere di un nuovo fondo flessibile, creato per assistere diverse categorie di lavoratori: dai caregiver ai disoccupati, dai lavoratori in attività gravose ai disabili che hanno raggiunto l’età di 63 anni con almeno 36 anni di contributi. E per le donne, le regole potrebbero diventare ancora più flessibili, specie se hanno figli a carico.
Riflessioni sulle rivalutazioni
I cambiamenti non si fermano qui. Sul fronte delle rivalutazioni, il governo ha deciso di rivedere l’indicizzazione delle pensioni, focalizzandosi in particolare sulle pensioni più basse. Giorgia Meloni, in conferenza stampa, ha sottolineato l’intenzione del governo di confermare la “super-rivalutazione” nel 2024. Questo significherebbe un aumento degli assegni minimi per diverse fasce d’età, con gli “over 75” che vedranno un aumento a circa 650 euro al mese.
La sostenibilità e l’Europa
Una delle principali preoccupazioni è la sostenibilità del sistema pensionistico, soprattutto alla luce delle sfide demografiche e economiche. La spesa pensionistica è in aumento, e il governo è sotto pressione per garantire che il sistema sia sostenibile nel lungo termine. Questo è essenziale non solo per i cittadini italiani, ma anche per rassicurare le istituzioni europee riguardo alla stabilità economica del paese.
La tutela dei “contributivi”
Un altro aspetto cruciale della riforma riguarda chi ha iniziato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995. Queste persone, spesso chiamate “contributivi”, potrebbero godere di maggiori protezioni e flessibilità. Il vincolo esistente, che ha spesso ritardato l’età pensionabile per molti, potrebbe essere eliminato, rendendo il sistema più equo.
Cambiano nel tempo le esigenze dell’assicurato: la compagnia può proporre delle modifiche? Che cosa comporta? Quali sono i diritti del contraente?
Quando si sottoscrive una polizza assicurativa, di solito lo si fa valutando determinati aspetti che si vogliono tutelare a determinate condizioni. La vita, però, prevede a volte dei cambiamenti e non è detto che, con il passare degli anni, quando la polizza è ancora attiva, le circostanze dell’assicurato siano ancora le stesse: può essere più conveniente avere una durata più lunga o più corta, può risultare opportuno togliere alcuni rischi e coprirne altri, ecc. Per fare tutto ciò, basta attuare la trasformazione del contratto assicurativo.
Questa operazione consiste nel modificare alcuni elementi della polizza, come:
la durata;
il rischio assicurato;
la modalità di pagamento.
La trasformazione avviene, di norma:
tramite la sottoscrizione di un’appendice contrattuale;
attraverso il riscatto del contratto in essere e la sottoscrizione di uno nuovo.
Solitamente, è la compagnia a proporre la trasformazione del contratto assicurativo, seguendo la normativa in vigore approvata dall’Ivass, l’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni. Normativa che tutela i diritti all’informazione e alla trasparenza che devono essere garantiti al contraente.
Nello specifico, è stato stabilito che, in caso di sostituzione o di modifica delle garanzie e delle condizioni di un contratto esistente, attuata anche mediante la predisposizione di appendici contrattuali, o nel caso in cui le circostanze o le modalità dell’operazione inducono a ritenere configurabile l’ipotesi della trasformazione del contratto, l’impresa assicurativa è tenuta a fornire al contraente i necessari elementi di valutazione in modo da consentirgli di confrontare le caratteristiche delle garanzie e delle condizioni preesistenti con le nuove garanzie e condizioni, evidenziando, in particolare, gli eventuali benefici, anche fiscali, a cui rinuncia a seguito dell’operazione.
In altre parole: prima di chiedere al contraente di firmare un nuovo contratto o di sottoscrivere delle diverse garanzie, la compagnia assicurativa ha l’obbligo di spiegare in maniera chiara e precisa:
che cosa cambia per il cliente;
a che cosa va incontro;
a quali benefici rinuncia;
quali vantaggi ottiene.
Lo scopo, ovviamente, è quello di mettere il contraente nelle condizioni di effettuare la trasformazione del contratto assicurativo in modo totalmente consapevole, venendo a conoscenza di eventuali nuove caratteristiche, come ad esempio:
i costi;
le esclusioni o le limitazioni;
l’indennizzo o il rendimento minimo garantito;
le prestazioni offerte;
le possibili penalità in caso di riscatto anticipato.
La compagnia è tenuta, prima di effettuare l’operazione, a consegnare al contraente almeno sette giorni prima della sottoscrizione o del riscatto:
un’informativa standardizzata sul contenuto del contratto e sulla differenza tra quello in essere e quello nuovo;
il set informativo sulle nuove garanzie e sulle condizioni.
L’informativa deve contenere, tra le altre cose, i dettagli su:
prestazioni assicurative e garanzie offerte, con i limiti massimi e minimi di durata del contratto oppure la durata fissa eventualmente prevista;
il premio, specificando che viene determinato in relazione alle garanzie prestate, alla loro durata ed ammontare, all’età e sesso dell’assicurato e, per le coperture di rischio, al suo stato di salute ed alle attività professionali svolte;
la periodicità del pagamento dei premi (soluzione unica, annuo, ecc.);
la modalità di calcolo e di assegnazione della partecipazione agli utili;
le opzioni esercitabili in base alle condizioni contrattuali, precisando tempi e modalità del loro esercizio;
l’impegno dell’impresa a fornire per iscritto all’avente diritto – al più tardi 60 giorni prima della data prevista per l’esercizio dell’opzione – una descrizione sintetica di tutte le opzioni esercitabili, con evidenza dei relativi costi e condizioni economiche se non prefissate nelle condizioni di polizza originarie;
i costi applicabili sui premi e sul riscatto;
le modalità con cui il diritto recesso, esercitabile dal contraente entro 30 giorni dal momento in cui è informato che il contratto è concluso, va comunicato all’impresa. La compagnia è tenuta al rimborso del premio entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione, con diritto a trattenere le spese di emissione del contratto effettivamente sostenute, a condizione che le stesse siano quantificate nella proposta e nel contratto, nonché la parte di premio relativa al periodo per il quale il contratto ha avuto effetto.
Fare un’assicurazione del condominio significa mettersi al riparo di possibili eventi che comportino delle spese impreviste o delle responsabilità per danni procurati a terzi.
In altre parole, è un modo per tutelare chi vive all’interno di un edificio da possibili danni che lo possano vedere coinvolto. Se si parla di un’assicurazione condominiale, però, il contraente non può essere il singolo proprietario di un’unità immobiliare: è un compito che spetta all’amministratore. Nel cercare una polizza del condominio, come scegliere quella migliore?
La più diffusa, forse perché è la più efficace, è la polizza globale fabbricati. Si tratta di una garanzia in grado di coprire in modo totale o parziale i danni che l’edificio può causare a persone o cose, oppure – viceversa – i danni che vengono causati da persone o da fattori esterni allo stesso fabbricato.
Questa polizza del condominio può essere sottoscritta:
dal proprietario;
dall’inquilino;
da chi ha il diritto d’uso o di abitazione sulla casa.
È l’assemblea a dover decidere se stipulare la polizza globale fabbricati, dopodiché spetterà all’amministratore occuparsi materialmente di contattare la compagnia assicurativa e di firmare il contratto.
Nell’ambito dei contratti di assicurazione sulla casa, la polizza globale fabbricati è quella che offre la doppia copertura su:
danni al fabbricato (ad esempio, l’incendio);
responsabilità civile del condominio nei confronti dei condòmini o di un condomino nei confronti di un altro, ma anche dei terzi estranei.
La polizza può tutelare le sole parti comuni dell’edificio, anche se di solito comprende anche la tutela delle parti di proprietà esclusiva. Non si tratta di una polizza obbligatoria: la stipula è facoltativa, a meno che il regolamento del condominio preveda di farla.
In aggiunta alla «globale fabbricati» ci può essere una polizza separata o aggiuntiva per coprire i costi di un’eventuale vertenza giudiziaria.
Polizza globale fabbricati: i beni coperti
Questo tipo di assicurazione della casa copre globalmente il fabbricato.
Nella definizione di «fabbricato», quindi, sono compresi questi elementi:
fissi, infissi ed opere di fondazione o interrate nonché le pertinenze (ad esempio la centrale termica, le cantine, i box, recinzioni e cancelli, muri di contenimento, piscine, parchi, alberi, strade private) purché realizzate nel fabbricato stesso o negli spazi ad esso adiacenti;
impianti ed installazioni considerati immobili per natura o destinazione (ad esempio ascensori e montacarichi, impianti elettrici ed elettronici, idrici, igienici, di riscaldamento e condizionamento d’aria, comprese caldaie autonome di riscaldamento e/o produzione di acqua calda ed impianti autonomi di condizionamento, pannelli solari termici e pannelli fotovoltaici);
tinteggiature, tappezzerie, moquettes, tende frangisole esterne purché installate su strutture fisse, rivestimenti in genere;
statue, affreschi e decorazioni non aventi valore artistico.
È importante specificare:
per i privati: che per fabbricato si intende anche la quota costituente parte comune dell’edificio;
per il condominio: che siano comprese nella garanzia le parti private dell’edificio.
Inoltre, la polizza globale fabbricati deve prevedere esplicitamente come garanzia aggiuntiva l’’indennizzo dei danni materiali e diretti causati al mobilio domestico di proprietà dell’assicurato e posto nel fabbricato, da incendio e dagli altri eventi coperti dal contratto assicurativo.
Danni al fabbricato
Con la polizza globale fabbricati, la compagnia si impegna a indennizzare i danni materiali e diretti al fabbricato causati da uno dei seguenti eventi:
incendio (di norma sono compresi anche i danni provocati per impedirlo o per spegnerlo);
fulmine;
fumo, gas e vapori fuoriusciti a seguito di guasto improvviso ed accidentale negli impianti per la produzione di calore del fabbricato stesso, purché gli impianti siano collegati mediante adeguate condutture ad appositi camini;
scoppio o implosione non causati da ordigni esplosivi;
caduta di aeromobili, satelliti artificiali e loro parti o cose da essi trasportate;
urto di veicoli stradali o di natanti, esclusi quelli causati da veicoli appartenenti ad uno degli assicurati o al contraente;
onda sonica determinata da aeromobili ed altri oggetti;
caduta di ascensori e montacarichi a seguito rottura di congegni;
furto di fissi e infissi relativi ai vani di uso comune, nonché danni agli stessi causati dai ladri per commettere il furto o la rapina o per tentare di commetterli;
fenomeni elettrici (azioni di correnti, scariche, ecc.) provocati a macchine ed impianti elettrici ed elettronici, esclusi in certi casi i danni dovuti ad usura, manomissione, difetti di materiali e di costruzione o riconducibili ad inadeguata manutenzione;
rotture di lastre in genere (vetri semplici o stratificati, decorati o meno, fissi nelle installazioni o scorrevoli);
rottura accidentale o causata dal gelo di condutture ed impianti fissi del fabbricato (esclusi a volte quelli interrati) ed il conseguente spargimento d’acqua;
trabocco degli impianti idrici, igienici e di riscaldamento, esclusi quelli di raccolta e di deflusso dell’acqua piovana, per occlusione delle relative tubazioni nonché rigurgito delle fognature di esclusiva pertinenza del fabbricato.
L’assicurazione garantisce:
l’indennizzo dei danni materiali e diretti arrecati al fabbricato assicurato in conseguenza di uno degli eventi coperti dalla polizza;
l’indennizzo dei danni conseguenti a sinistro indennizzabile;
eventuali garanzie aggiuntive previste dalla polizza.
L’assicurazione prevede un massimale di copertura dei danni al fabbricato, rappresentato dal valore di ricostruzione a nuovo del fabbricato stesso, escluso il valore dell’area. La stima dell’ammontare del danno è poi effettuata sulla ricostruzione per le parti distrutte e sulla ricostruzione per quelle danneggiate dedotto l’eventuale valore dei residui.
Per i danni derivanti dalla perdita del canone di locazione, l’ammontare del danno si stabilisce considerando il tempo strettamente necessario per il ripristino dei locali danneggiati.
L’assicurazione copre anche le spese tecnicamente necessarie per la ricerca e la riparazione del danno delle opere murarie, la riparazione e la sostituzione della parte dell’impianto danneggiato.
Responsabilità civile
L’altra importante copertura della polizza globale fabbricati è quella che riguarda la responsabilità civile verso terzi. La compagnia di assicurazioni è obbligata a rispondere fino alla concorrenza del massimale garantito di quello che l’assicurato deve pagare per danni involontariamente causati a terzi, per morte, lesioni personali e danneggiamenti a cose ed animali in relazione alla proprietà del fabbricato ed alla conduzione delle parti comuni. La garanzia comprende, ad esempio, i danni causati da incendio o esplosione.
Se la polizza prevede una copertura generica dei danni «involontariamente provocati a terzi in conseguenza di un fatto accidentale», la garanzia opera anche in caso di comportamento gravemente colposo dell’assicurato (ad esempio, nell’ipotesi di un difetto di manutenzione di una tubazione idrica condominiale), con la sola eccezione delle condotte dolose. Tuttavia, la polizza copre la parte di responsabilità civile derivante da un fatto doloso di persone per le quali l’assicurato debba rispondere (ad esempio, il danno causato dal figlio minorenne dell’assicurato).
Il contratto può prevedere delle clausole specifiche per la copertura del danno causato durante i lavori dimanutenzione ordinaria e straordinaria, ristrutturazione e ampliamento dell’immobile, purché le opere siano state appaltate con regolare contratto ed imputabili al proprietario in qualità di committente.
La polizza in genere può coprire anche la responsabilità per gli infortuni del custode o di altro personale dipendente addetto alla manutenzione del fabbricato, ad esclusione delle malattie professionali.
Solitamente sono esclusi dalla polizza i danni che derivano da:
umidità, stillicidio o insalubrità dei locali;
inquinamento dell’aria, dell’acqua o del suolo;
interruzione, impoverimento, deviazione di sorgenti e corsi d’acqua;
alterazione e impoverimento di falde acquifere, di giacimenti minerari ed in genere di quanto si trova nel sottosuolo, suscettibile di sfruttamento.
Non sono considerati terzi risarcibili:
il coniuge, i parenti e affini dell’assicurato, purché con lui conviventi;
quando l’assicurato non è una persona fisica, il legale rappresentante, i soci a responsabilità illimitata, l’amministratore e le persone che si trovano con loro nei rapporti di cui al punto precedente;
le persone che, essendo dipendenti dell’assicurato, subiscono il danno durante il lavoro che riguarda la manutenzione e la pulizia degli edifici e dei relativi impianti.
Polizza globale fabbricati: cosa non copre
Non rientra nella polizza globale fabbricati e, quindi non è indennizzabile (salvo patto contrario con la compagnia) il danno provocato da:
dolo o colpa grave del contraente o dell’assicurato (non è esclusa, però, la copertura in caso di colpa lieve);
eventi straordinari come terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni e alluvioni, uragani, bufere, tempeste, grandine, trombe d’aria nonché atti di guerra, di insurrezione, di occupazione militare, di requisizione, di invasione;
gelo e carico neve, salvo quanto previsto nelle singole polizze;
esplosione o emanazioni di calore o di radiazioni provenienti da trasmutazione di nucleo dell’atomo o radiazioni provocate dall’accelerazione di particelle atomiche.
Con le nuove convenzioni di Cassa Forense, avvocati e familiari possono beneficiare di sconti significativi su esami, visite e altri servizi sanitari.
La Cassa Forense, come riportato su CFNews.it, ha annunciato la stipula di due nuove convenzioni in ambito sanitario. Queste convenzioni permettono agli avvocati e ai loro familiari di accedere a una vasta gamma di prestazioni mediche a prezzi ridotti, tra cui esami, accertamenti diagnostici, visite specialistiche e molti altri servizi.
SiSalute Card: cos’è e come funziona?
La SiSalute Card è il frutto della prima convenzione. Questa card, disponibile in tutto il territorio nazionale grazie alla rete SiSalute, offre tariffe scontate per una serie di prestazioni sanitarie. Le tipologie di card disponibili sono: esami, visite e fisioterapia.
La card permette di ottenere sconti fino al 30% sulle prestazioni presso strutture sanitarie convenzionate. È possibile acquistarla con uno sconto del 30% utilizzando un codice riservato agli iscritti alla Cassa Forense.
Una volta acquistata, la card verrà inviata via email e dovrà essere attivata entro 6 mesi. La validità della card è di un anno dall’attivazione e non presenta limiti di età, numero di prestazioni o vincoli di prescrizione medica.
Medic4all-Plus: una soluzione completa per la salute
La seconda convenzione presenta “Medic4all-Plus”, un pacchetto di servizi sanitari disponibile per l’acquisto sul portale Assaperlo.com. Gli iscritti alla Cassa Forense possono acquistare questo pacchetto a condizioni agevolate e beneficiare di sconti che vanno dal 5% al 70% su una vasta gamma di servizi, effettuabili presso le cliniche convenzionate con My Assistance in Italia.
Il pacchetto offre servizi fruibili online o tramite app dedicata e include una serie di funzionalità come la cartella medica personale online, card salvavita, televideoconsulto 24/7, referto e ricetta online, e SMS medicale. La durata di Medic4all-Plus è di un anno ed è nominativa, quindi valida per una sola persona.
Conclusione
Le nuove convenzioni proposte dalla Cassa Forense rappresentano un’ottima opportunità per gli avvocati e i loro familiari di accedere a servizi sanitari di alta qualità a prezzi ridotti. Che tu scelga la SiSalute Card o il pacchetto Medic4all-Plus, avrai accesso a un’ampia gamma di prestazioni e servizi per garantirti il meglio per la tua salute e quella dei tuoi cari.
Anche senza aver mai versato contributi, esistono sostegni come l’assegno sociale e la pensione di invalidità civile. Scopri le condizioni e i benefici previsti dalla legge.
La pensione rappresenta una sicurezza economica per la vecchiaia. Ma cosa succede a chi non ha mai versato contributi all’Inps? Chi non ha mai lavorato ha diritto a una pensione?
Lo Stato italiano ha messo in atto diverse misure di sostegno per garantire un reddito minimo a chi è in condizioni di povertà o di salute tali da non potersi mantenere da solo. E questo perché la nostra Costituzione è improntata al principio di solidarietà e, pertanto, viene incontro ai meno fortunati.
Ma procediamo con ordine e vediamo come avere una pensione senza contributi, cosa spetta a chi è povero, disabile o comunque in condizioni di indigenza.
Si ha diritto a una pensione se non si è mai lavorato?
La risposta, come si potrebbe intuire, è negativa. Chi non ha mai lavorato non può avere una pensione. È la conseguenza del nostro sistema pensionistico che eroga i trattamenti previdenziali (appunto le pensioni sulla base di quanti contributi sono stati versati durante la vita lavorativa.
Attualmente, per avere diritto a una pensione, è necessario aver versato almeno 20 anni di contributi, 15 in certi casi, o 5 anni per una pensione di vecchiaia a 71 anni. Chiaramente a versare i contributi per i lavoratori dipendenti è il datore di lavoro. Invece professionisti e autonomi devono provvedere da soli ad aprire una propria posizione previdenziale e a versare i relativi contributi per la vecchiaia.
Cosa succede se il datore di lavoro non ha versato i contributi?
Il dipendente che si accorge che il proprio datore di lavoro non gli ha versato i contributi può denunciarlo quando le somme non versate all’Inps superano 10mila euro: in tal caso infatti la condotta integra un reato. In ogni caso ha l’onere di attivarsi entro cinque anni per segnalarlo all’Inps ed evitare così la prescrizione del proprio diritto alla ricostruzione della posizione previdenziale.
Se il lavoratore fa la comunicazione all’Inps dell’omesso versamento dei contributi non perde il periodo previdenziale rimasto scoperto. Se invece il termine risulta decorso l’interessato può richiedere la costituzione di una rendita vitalizia. La procedura è tuttavia complessa e lunga: bisogna, infatti, dimostrare – con prova scritta avente data certa – che c’è stato un rapporto di lavoro continuativo, il pagamento periodico dello stipendio, l’entità dello stesso.
Resta fermo l’obbligo del risarcimento del danno da parte del datore di lavoro.
Cosa prevede lo Stato per chi non ha una pensione?
Per coloro che non hanno mai lavorato o non hanno raggiunto i contributi minimi, lo Stato ha previsto l’assegno sociale, una misura di sostegno per chi si trova in condizioni di bisogno.
L’assegno sociale, noto in passato come “pensione sociale”, è un beneficio per chi:
ha almeno 67 anni;
risiede in Italia (con residenza effettiva e dimora abituale);
ha un reddito inferiore ai limiti stabiliti, che per il 2023 sono 6.542,51 euro per le persone sole e 13.085,02 euro per i coniugati.
L’importo dell’assegno sociale per il 2023 è di 503,27 euro al mese, per un totale annuo di 6.542,51 euro. Si ha diritto a tale cifra solo se il proprio reddito è pari a zero. Viceversa, in presenza di un reddito (che, come detto, non deve superare 6.542,51 euro), dall’ammontare dell’assegno sociale deve essere sottratto l’importo del reddito stesso.
La formula è la seguente: 6.542,51 – reddito personale.
Ad esempio, con un reddito di 2.000 euro, l’assegno annuo sarebbe di 4.542,51 euro, o circa 350 euro al mese.
A cosa ha diritto chi è disabile?
Per chi ha problemi di salute ed è portatore di una disabilità, la pensione di invalidità civile per chi, oltre alle difficoltà economiche, ha problemi di salute che limitano la sua capacità lavorativa.
Tale pensione è destinata a invalidi civili, ciechi e sordi e non va confusa con altri tipi di pensioni o assegni per invalidità. L’importo e i limiti di reddito vengono aggiornati annualmente. Tuttavia, al raggiungimento dei 67 anni, questa pensione si trasforma in assegno sociale.
Come raggiungere i requisiti pensionistici attraverso la somma gratuita dei contributi accreditati in casse diverse.
Hai una carriera lavorativa piuttosto articolata, con contributi versati in gestioni previdenziali differenti? Sei ancora giovane per la pensione di vecchiaia, ma possiedi molti contributi? Devi sapere che, oltre al cumulo [1], con il quale ottieni la pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi di versamenti in casse diverse (un anno in meno se sei donna), puoi ottenere anche la pensione anticipata con totalizzazione.
La totalizzazione [2] è uno strumento che consente di sommare gratuitamente la contribuzione accreditata presso diverse gestioni di previdenza obbligatoria, per raggiungere la pensione. In parole semplici, puoi sommare i contributi accreditati presso tutte le casse di previdenza obbligatoria amministrate dall’Inps (Fondo pensione lavoratori dipendenti, gestione commercianti, gestione separata, gestione dipendenti pubblici, etc.) e quelli accreditati presso le casse professionali (Cassa Forense, Inarcassa, Enpa, etc.).
Per richiederla basta presentare un’apposita domanda all’ente presso cui risulta accreditata l’ultima contribuzione a favore del lavoratore, o meglio laddove questi sia stato iscritto per ultimo. Tale richiesta può essere avanzata dallo stesso interessato, oppure da un familiare superstite.
Negli ultimi tempi, questo strumento è poco utilizzato a causa dell’operatività del cumulo, consistente in un’altra modalità per sommare, senza costi, i contributi accreditati presso casse diverse: presso la generalità delle gestioni amministrate dall’Inps, il cumulo non obbliga al ricalcolo contributivo del trattamento, mentre questo svantaggio è in molti casi comportato dalla totalizzazione.
In realtà, la totalizzazione non sempre obbliga al ricalcolo contributivo, in diverse ipotesi in cui l’interessato raggiunga il diritto ad autonoma pensione.
Devi considerare inoltre che, attraverso la totalizzazione, puoi ottenere la pensione di anzianità con soli 41 anni di contributi.
Analizziamo allora gli aspetti fondamentali della pensione anticipata con totalizzazione: chi può ottenere il trattamento, quali requisiti richiede la legge nel dettaglio e quali contributi si possono sommare per raggiungere il diritto al trattamento pensionistico.
Quali contributi si possono riunire con la totalizzazione?
Utilizzando la totalizzazione, possono essere sommati tutti i contributi accreditati presso le seguenti gestioni di previdenza obbligatoria:
Due o più forme di assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti;
Assicurazione generale obbligatoria (Ago), che comprende il Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) e le gestioni speciali dei lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, agricoli);
Fondi sostitutivi dell’Ago (ex Fondo Elettrici, Telefonici, ex Enpals, Fondo Volo, Inpgi, etc.);
Gestione Separata Inps dei lavoratori parasubordinati;
Gestioni di previdenza dei liberi professionisti;
Fondo di previdenza per il clero secolare e per i ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica;
In precedenza, insieme ad essi, era annoverato il Fondo previdenziale ed assistenziale per il personale iscritto all’albo degli spedizionieri doganali, il quale è stato, però, soppresso dal 1°gennaio 1998. Gli iscritti precedentemente a tale data possono ugualmente esercitare la facoltà di cumulo dei periodi contributivi per poter conseguire le prestazioni pensionistiche che dovranno essere liquidate in totalizzazione.
da riscatto (corso legale di laurea, attività svolta in Paesi non convenzionati con l’Italia, etc.);
da ricongiunzione.
Quali contributi non si possono sommare con la totalizzazione?
Non possono rientrare nell’operazione di totalizzazione tutti i contributi versati presso gestioni di previdenza non obbligatoria: non puoi riunire, ad esempio i contributi versati presso il fondo di previdenza complementare, presso il fondo casalinghe o presso la fondazione ENASARCO.
Quali condizioni bisogna soddisfare per richiedere la totalizzazione?
L’operazione di totalizzazione:
deve comprendere tuttii contributi presenti nelle gestioni in cui l’assicurato è o è stato iscritto: non è consentita la totalizzazione parziale;
non è fruibile da una persona già titolare di una pensione autonomaerogata da una delle gestioni alle quali è iscritta, anche se si vogliono sommare dei periodi contributivi maturati in casse diverse da quella in cui sia stata già liquidata una prestazione a favore del pensionato;
La richiesta di totalizzazione può essere fatta:
se in una gestione si ha diritto ad un’autonoma pensione, purché non ancora liquidata;
se si fruisce di una pensione ai superstiti;
se si fruisce di una pensione erogata da un fondo diverso dalle gestioni potenzialmente coinvolte nella totalizzazione, o di un trattamento pensionistico erogato da un ente estero, purché la contribuzione non sia stata già utilizzata per la totalizzazione internazionale.
Di fatto, anche i periodi contributivi versati in Paesi facenti parte dell’Unione Europea ed in Paesi comunque legati all’Italia da convenzioni bilaterali di sicurezza sociale devono essere tenuti in considerazione. A tal proposito, è necessario il rispetto del minimale di contribuzione per l’accesso alla totalizzazione previsto dalla normativa europea, nonché dalle singole convenzioni intercorrenti tra gli Stati. In base ai Regolamenti UE il periodo minimo richiesto ai fini della totalizzazione internazionale è di un anno, in materia di Accordi e Convenzioni bilaterali sono previste differenti tempistiche.
La domanda di totalizzazione non è consentita se l’interessato ha richiesto e accettato la ricongiunzione dei contributi, cioè se ha già effettuato il pagamento della prima rata oppure l’intero pagamento dell’onere di ricongiunzione, in data successiva al 3 marzo 2006.
Tuttavia, chi continui a lavorare, dopo aver ottenuto la liquidazione della pensione in totalizzazione, versando nel contempo i contributi in una delle gestioni incluse nel cumulo dei periodi assicurativi può richiedere che gli venga liquidato il supplemento di pensione.
Ma esattamente di cosa si tratta?
Il supplemento di pensione è da considerarsi come un’aggiunta della pensione rapportata, per l’appunto, all’entità dei contributi che vengono versati nel periodo successivo al pensionamento.
Quali sono i requisiti per ottenere la pensione anticipata in totalizzazione?
Puoi ottenere la pensione anticipata in totalizzazione, o più precisamente la pensione di anzianità in totalizzazione, nel caso in cui, tra tutte le gestioni, possieda almeno 41 anni di contributi, contando i periodi non coincidenti.
Sono esclusi dalla contribuzione utile al diritto i contributi figurativi per malattia o disoccupazione, che comunque sono utili per calcolare l’ammontare della pensione. Nello specifico è la stessa Corte di Cassazione [3] a sottolineare come i contributi validi per poter conseguire la pensione siano soltanto quelli che riguardano l’effettivo rapporto di lavoro, salvo precise eccezioni.
A partire dalla maturazione dei requisiti, per ottenere la liquidazione della pensione, si deve attendere un periodo di finestra di 21 mesi.
Calcolo della pensione anticipata in totalizzazione
Il calcolo della pensione anticipata in totalizzazione, presso le gestioni amministrate dall’Inps, avviene con sistema integralmente contributivo (qui trovi la guida al calcolo contributivo della pensione), in generale, ciascuna delle gestioni coinvolte determina il trattamento pro-quota con riferimento alla parte di propria competenza maturata nel relativo periodo di iscrizione.
Tale calcolo è, però, retributivo/misto se il lavoratore risulta iscritto presso una delle gestioni di previdenza pubbliche prima del 1996 ed ha già raggiunto, in una di tali gestioni, i requisiti minimi per il conseguimento del diritto a un’autonoma pensione [4].
Viene utilizzato, nella generalità dei casi, il sistema di calcolo contributivo anche presso le casse dei liberi professionisti privatizzate, ma con alcune particolarità:
per la determinazione del montante contributivo (la somma dei contributi, da rivalutare annualmente e trasformare in pensione), si considerano i contributi soggettiviversati dall’iscritto, entro il tetto di reddito, se previsto dal regolamento della cassa; si considerano anche i contributi da riscatto, mentre- salvo particolarità dettate da appositi regolamenti- sono esclusi i contributi integrativi e di solidarietà;
la determinazione del tasso di capitalizzazione (cioè della rivalutazione) del montante contributivoavviene in base alle regole del decreto sulla totalizzazione [5];
deve essere utilizzato come coefficiente di trasformazione, basato sull’età pensionabile, quello indicato nella tabella A della legge Dini [6];
la quota di pensione annua viene maggiorata in proporzione all’anzianità contributiva maturata presso l’ente di categoria, applicando una relazione matematica.
I parametri di calcolo illustrati potrebbero cambiare ed essere armonizzati, in caso di sostanziali modifiche dei sistemi previdenziali da parte dei singoli enti: le variazioni devono essere deliberate dagli enti e approvate dai Ministeri vigilanti.
È tuttavia possibile, presso le casse dei liberi professionisti, utilizzare il sistema di calcolo della pensione previsto dall’ordinamento della singola gestione, non integralmente contributivo, qualora i versamenti accreditati nella gestione pensionistica siano uguali o superiori a quelli minimi richiesti per il conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia.
Relativamente alle casse private (le cosiddette “nuove casse professionali”, non si tratta delle casse privatizzate) dei liberi professionisti, ad esempio l’Enpapi, viene utilizzato il sistema di calcolo vigente nel singolo ordinamento, che è normalmente quello contributivo.
L’INPS si occupa del pagamento degli importi liquidati dalle diverse gestioni e, previa convenzione con gli enti interessati, viene affidato anche in quelle ipotesi in cui non è stata impiegata contribuzione INPS.
Come si sommano i contributi per il diritto alla pensione in totalizzazione?
Ai fini del diritto alle pensioni in regime di totalizzazione, la normativa stabilisce che i periodi di iscrizione nelle diverse gestioni si convertano nell’unità di tempo prevista da ciascun ordinamento, sulla base dei seguenti parametri:
6 giorni equivalgono ad una settimana e viceversa;
26 giorni equivalgono ad un mese e viceversa;
78 giorni equivalgono ad un trimestre e viceversa;
312 giorni equivalgono ad un anno e viceversa.
Quali sono i trattamenti erogabili in totalizzazione?
I trattamenti pensionistici, conseguibili per mezzo della totalizzazione, alla presenza di determinate condizioni per l’anno 2023, sono i seguenti:
pensione di vecchiaia: al compimento dell’età anagrafica richiesta, che per l’anno 2023 è di 66 anni, e con almeno 20 anni di contributi, la cui finestra di accesso implica un periodo di 18 mesi;
pensione anzianità: si prevede il possesso del requisito minimo di contribuzione richiesto che, per l’anno di riferimento, è 41 anni, a prescindere dall’età anagrafica. In tal caso il periodo finestra di attesa è di 21 mesi;
pensione di inabilità: si prevedono il possesso dei requisiti di assicurazione e di contribuzione, congiuntamente a quelli richiesti nella forma pensionistica in cui il lavoratore risulta iscritto al verificarsi dello stato inabilitante;
pensione indiretta ai superstiti: in sussistenza dei requisiti di assicurazione e contribuzione, congiuntamente alle ulteriori condizioni richieste nella forma pensionistica nella quale il dante causa era iscritto al momento della morte.
Le modifiche proposte alla “Quota 104” vedranno un taglio del 4% per coloro che optano per una pensione anticipata a 63 anni. Questa riforma, ancora in discussione, ha suscitato numerose reazioni.
Con la legge di Bilancio, la pensione anticipata si trasforma, passando da Quota 103 a Quota 104. In questo modo si potrà andare in pensione anticipata più tardi, con almeno 63 anni di età (erano 62 nel 2023) e 41 anni di contributi e in più con una riduzione dell’importo relativo alla quota retributiva. Nella bozza si legge: «Ai fini della determinazione dell’importo delle pensioni anticipate, le quote da calcolare con il sistema retributivo sono ridotte».
Il taglio dipenderà da quanto prima il lavoratore andrà in pensione prima rispetto ai 67 anni richiesti per la pensione di vecchiaia.
Chi sceglie di anticipare la propria pensione attraverso la “Quota 104” e decide di uscire a 63 anni, dopo aver versato per almeno 41 anni, subirà una penalizzazione del 4%.
Se tale proposta verrà mantenuta nella legge di bilancio finale, il rapporto tra il coefficiente di trasformazione per l’età di uscita e quello per l’età di vecchiaia subirà modifiche, con una riduzione di circa il 12% della “fetta” retributiva. Tradotto in termini pratici, ciò si tradurrà in una diminuzione di circa 100 euro per una pensione di 2.500 euro lordi al mese.
Opzioni alternative alla Quota 104
I lavoratori avranno ancora la possibilità di evitare la “Quota 104”, ottenendo un “premio” in cambio: il mantenimento nella busta paga della trattenuta contributiva del 9,19%, simile al “bonus Maroni“. Tuttavia, questo bonus si riduce al 2% nei casi di decontribuzione. Nonostante fosse stato introdotto all’inizio dell’anno, il suo utilizzo è stato limitato, riducendo la sua funzione di incentivo.
Addio pensioni anticipate
Dal 2025 potrebbero non bastare più 42 anni e 10 mesi di contributi oltre ai tre mesi di finestra mobile per l’accesso alla pensione anticipata indipendentemente dall’età (41 anni e 10 mesi per le donne).
Reazioni e opinioni
La proposta ha scatenato critiche, in particolare dalla Cgil. La segretaria confederale, Lara Ghiglione, ha dichiarato che con queste modifiche, il governo sembra trascurare gli impegni presi, riferendosi in particolare alla legge Fornero. Inoltre, ci sono state preoccupazioni riguardo alle modifiche proposte ai criteri di pensionamento per i “millennials” o lavoratori “interamente contributivi”.
Futuro delle pensioni minime
La questione delle pensioni minime rimane aperta. Alcuni sperano in un aumento dell’assegno pensionistico fino a quasi 650 euro per gli “over 65” o almeno che venga confermata la rivalutazione per gli “over 75”. La decisione finale sulla legge di bilancio, e dunque sulla riforma delle pensioni, dovrebbe arrivare nel prossimo week end.
Scopri i benefici, i bonus e i diritti per chi è disabile e ha una percentuale di invalidità del 75% o superiore.
Avere una percentuale di invalidità del 75% comporta diversi benefici. La nostra Costituzione è infatti improntata a un principio solidaristico implicito nel concetto di uguaglianza: situazioni uguali vanno trattate in modo uguale ma situazioni diverse meritano un trattamento diverso. Ecco perché le nostre leggi tutelano chi è portatore di un handicap. E chiaramente più è grave tale handicap e maggiori saranno le misure assistenziali.
Questa guida spiega in modo chiaro e comprensibile tutte le agevolazioni e i diritti a cui si ha accesso, dai contributi previdenziali alle agevolazioni lavorative. Andiamo a scoprire di più e vediamo a cosa si ha diritto con il 75% di invalidità. Lo faremo elencando le misure attualmente in vigore. Si tenga conto tuttavia che alcuni dei seguenti importi vengono aggiornati periodicamente all’inflazione. Ma procediamo con ordine.
Come avere l’invalidità del 75%?
Se la tua capacità di lavorare è ridotta di almeno il 75%, hai diritto a svariate agevolazioni in ambito lavorativo, assistenziale e previdenziale. Ma, come si fa a certificare questo stato? Bisogna innanzitutto presentare una domanda all’INPS. Nella procedura ci si può fare affiancare da un patronato e l’assistenza è gratuita. Per la richiesta è necessario un certificato medico telematico rilasciato dal proprio medico di base il quale ne cura l’invio all’INPS stesso.
La domanda di invalidità civile deve essere presentata entro il termine di 60 giorni dalla data indicata sul certificatomedico. Il ritardo anche di un solo giorno può determinare il rigetto della richiesta.
Per ottenere poi le prestazioni economiche bisogna consegnare all’INPS il modello AP70 debitamente compilato.
Vediamo ora quali sono le singole misure previste dalla legge per chi ha l’invalidità pari al 75%.
Posso avere diritto a un assegno di invalidità?
Con una capacità lavorativa ridotta a meno di un terzo (e quindi con una invalidità al 75%), hai diritto all’assegno ordinario di invalidità a patto però di possedere almeno 5 anni di contributi, di cui 3 versati nell’ultimo quinquennio. La misura dell’assegno varia in base ai contributi che hai versato durante la tua attività lavorativa e viene ridotta se il tuo reddito supera di 4 volte il trattamento minimo.
Anche se ricevi l’assegno di invalidità puoi lavorare.
E se non ho i contributi necessari?
Se non hai i contributi minimi richiesti per l’assegno di invalidità, ma possiedi un reddito inferiore a 5.391,88 euro hai diritto alla pensione d’invalidità civile.
Questa pensione viene poi convertita in un assegno sociale al raggiungimento di 65 anni e 7 mesi.
L’assegno ammonta a 313,91 euro per 13 mensilità, è esente da tasse.
Chi riceve la pensione di invalidità non può svolgere altra attività lavorativa (come invece succede con l’assegno di invalidità).
Posso essere esentato dal pagamento del ticket sanitario?
Con un’invalidità del 75%, hai diritto all’esenzione dal ticket sanitario su molte prestazioni sanitarie (specialistiche e di diagnosi strumentali). Hai diritto poi a un’agevolazione per i medicinali.
Quali altri benefici posso ottenere con la Legge 104?
Con una invalidità al 75% vengono riconosciuti i benefici della legge 104del 1992 la quale a sua volta prevede:
tre giorni al mese di permessi retribuiti, anche frazionabili;
la scelta della sede di lavoro e il diritto a rifiutare un trasferimento a meno che non sia strettamente necessario;
esenzione dal bollo auto;
inapplicabilità del fermo amministrativo sull’auto anche se non hai pagato le cartelle esattoriali;
diritto di parcheggio nelle strisce gialle;
diritto di parcheggio nelle strisce blu gratuitamente;
pass invalidi per entrare nelle ZTL gratuitamente.
Ho diritto a un periodo di congedo per le cure?
Sì, se sei un lavoratore con una percentuale di invalidità superiore al 51%, hai diritto a 30 giorni all’anno di congedo per cure ma sempre che lo preveda il tuo contratto collettivo nazionale. I costi in questo caso ricadono sull’azienda e non sullo Stato.
Diritto al collocamento mirato
Con una invalidità al 75% hai diritto al collocamento mirato che ti consente di accedere a servizi di sostegno e di collocamento dedicati alle categorie protette, facilitando l’inserimento lavorativo. Per usufruirne, devi recarti presso il centro per l’impiego, presentando, oltre al verbale di invalidità, la relazione conclusiva rilasciata dalla preposta
Posso beneficiare delle quote di riserva in azienda?
Le aziende hanno delle quote di riserva per le categorie protette, e se la tua invalidità è superiore al 60%, rientri in questa categoria.
Ho diritto a protesi ed ausili?
Sì, se la tua invalidità supera il 33,33%, hai diritto a dispositivi che possono aiutarti nella vita quotidiana.
Aumento della povertà in Italia: cosa significa essere poveri? Qual è il reddito al di sotto del quale si è considerati indigenti?
Tra il 2022 e il 2023, la percentuale di famiglie in condizione di povertà assoluta è cresciuta, raggiungendo l’8,3%, in aumento rispetto al 7,7% del 2021. Questo si traduce in 2,18 milioni di famiglie e oltre 5,6 milioni di individui. Questa escalation è dovuta, in larga parte, all’accelerazione dell’inflazione.
Chi è maggiormente colpito dalla povertà?
L’incidenza della povertà è notevolmente superiore tra le famiglie con almeno un membro straniero, attestandosi al 28,9%. Invece, le famiglie composte esclusivamente da italiani sono una percentuale del 6,4%.
Le Regioni mostrano disparità: il Mezzogiorno ha una percentuale del 10,7% di poveri, contro il 7,5% del Nord e il 6,4% del Centro.
Qual è la soglia della povertà?
Ma qual è la soglia sotto la quali si è poveri? Per definire la “povertà assoluta”, l’Istat ha stabilito delle soglie economiche basate sulle spese minime necessarie per acquisire beni e servizi essenziali. I numeri chiaramente variano in base ai componenti del nucleo familiare. Vediamoli qui di seguito.
Per una persona sola, la soglia della povertà è di 690 euro al mese.
Invece per una coppia il limite per potersi considerare poveri è di 1.150 euro al mese.
Infine per una famiglia di quattropersone la soglia della povertà è di 1.874 euro. Queste cifre possono variare in base a numerosi fattori, come Regione di residenza e la dimensione del Comune. Ma non solo. Ci sono ulteriori elementi che possono incidere sulle spese e quindi sulla povertà. Un tipico fattore di incidenza è la sussistenza di una disabilità che richiede maggiori esborsi per assistenza e medicine.
Inflazione e impatto sulle famiglie
L’inflazione del 2022 ha visto un aumento impressionante dell’8,7%. Questa accelerazione ha avuto un impatto maggiore sulle famiglie meno abbienti, con un aumento annuo dei prezzi del 12,1% per il primo quinto di famiglie. Di conseguenza, anche se le spese di consumo sono cresciute, non sono riuscite a tenere il passo con l’inflazione, provocando una riduzione effettiva della loro capacità di spesa.
Misure di supporto
Il Governo ha introdotto bonus socialiper l’energia e il gas, contribuendo a contenere la crescita della povertà. Si stima che queste misure abbiano ridotto l’incidenza della povertà di sette decimi di punto. Ma non bastano, anche perché si tratta di misure “spot”. La lotta alla povertà richiede interventi strutturali che siano messi a regime. Un tempo lo era il reddito di cittadinanza, oggi abolito.
Il nuovo programma “Home Care Premium” dell’Inps introduce cambiamenti rivoluzionari per l’assistenza degli anziani non autosufficienti, offrendo sostegno economico e servizi personalizzati.
Il progetto “Home Care Premium” targato Inps si propone come una soluzione innovativa per l’assistenza degli anziani o non autosufficientidirettamente a casa loro.
Grazie a questo programma, i beneficiari potranno ricevere contributi economici mensili, che possono arrivare fino a 1.380 euromensili, destinati a coprire le spese di un assistente domiciliare, oltre a servizi integrativi personalizzati, con un massimo di 495 euro al mese.
Parametri e valutazioni personalizzate
Le prestazioni offerte dal programma sono calibrate in base all’Isee del beneficiario e al livello di gravità della sua non autosufficienza. Come sottolineato dal Direttore Generale dell’Inps, Vincenzo Caridi, l’obiettivo è offrire un sostegno diversificato, tenendo conto non solo della disabilità, ma anche del contesto socio-economico in cui l’individuo vive.
Modalità operative e servizi
Un professionista socio-sanitario dell’Inps, tramite un sistema sviluppato in collaborazione con le università, valuterà le esigenze dell’utente e collaborerà alla creazione di un piano di assistenza su misura. Questi servizi verranno forniti dagli enti locali e da altri enti specializzati presenti sul territorio. Una piattaforma digitale faciliterà la connessione tra Inps, enti erogatori e cittadini, garantendo un’assistenza continua e coordinata.
Programma “Long Term Care” (LTC)
Per coloro che necessitano di cure a lungo termine e non possono essere assistiti a domicilio, è stato presentato anche il programma “Long Term Care”. Questa iniziativa prevede contributi fino a 1.800 euro al mese per coprire le spese sostenute per il ricovero in Residenze sanitarie assistenziali (Rsa).
Novità in arrivo e finanziamenti
L’HCP sarà presto arricchito con nuove prestazioni, tra cui il rimborso per servizi di teleassistenza per residenti in aree interne. Si punta anche sulla prevenzione con la copertura delle spese per screening sanitari. Questi programmi sono finanziati dal contributo obbligatorio dello 0.35% della retribuzione mensile dei dipendenti pubblici iscritti al fondo Gestione Unitaria Prestazioni Creditizie e Sociali.
In caso di infortuni domestici, la responsabilità può ricadere sul datore di lavoro ma il risarcimento viene pagato dall’INAIL. Vediamo quando e perché, basandoci su una recente sentenza della Cassazione.
Quando una colf o, più in generale, un lavoratore domestico si infortuna mentre svolge le proprie attività a casa del datore di lavoro, chi ne risponde? La questione della responsabilità in caso di incidenti domestici è delicata e ha visto vari sviluppi giurisprudenziali. Sulla questione peraltro incide un aspetto fondamentale: l’eventuale regolarizzazione del dipendente. Perché è chiaro che, se dovesse trattarsi di un “lavoratore in nero”, la responsabilità resterebbe sempre ancorata in capo al datore il quale sarebbe tenuto a risarcire tutti i danni per non aver adottato adeguate misure di sicurezza.
Basandoci su una recente ordinanza della Cassazione cerchiamo di rispondere alla seguente domanda: se la colf si fa male durante le pulizie, chi ne risponde? È possibile chiedere il risarcimento all’INAIL? Che succede se l’infortunio è avvenuto per imprudenza della stessa lavoratrice domestica? Ecco la risposta.
Chi risponde in caso di infortunio domestico?
Se una colf si infortuna mentre svolge le sue mansioni domestiche, la responsabilità può ricadere sul datore di lavoro solo se questi non ha adottato tutte le misure di sicurezza che la legge gli impone. Quali sono queste misure di sicurezza? Non sono elencate in modo analitico dalla legge. Tuttavia, in generale, l’articolo 2087 del codice civile stabilisce che il datore deve adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Si tratta di una “norma di chiusura” del sistema, che consente di ricomprendere nell’alveo delle responsabilità del datore tutte le misure possibili e immaginabili per evitare rischi.
Tornando all’esempio della domestica, sarebbe responsabile il datore che consentisse alla colf di salire su una scala per sganciare le tende in assenza di qualcuno che l’aiuti o che semplicemente le regga la scala stessa: si tratta infatti di un’operazione pericolosa che implica un elevato rischio di caduta. È proprio questo, del resto, il caso che ha originato l’ordinanza della Cassazione n. 25217/2023 del 24 agosto 2023.
Nel caso specifico citato, la colf è caduta dalla scala mentre smontava le tende dell’appartamento. Qui la questione centrale è: il datore ha fornito gli strumenti e le precauzioni necessarie per evitare l’incidente? La risposta fornita dai giudici supremi è negativa.
L’onere della prova: a chi spetta?
Un punto fondamentale è l’onere della prova. In linea generale le norme sul processo civile impongono a chi agisce di dimostrare i fatti a fondamento del diritto fatto valere in giudizio. Ma in questo caso – sostiene la Cassazione – si ha una inversione dell’onere della prova. Difatti l’ordinanza della Cassazione ha chiarito che la prova spetta al datore. Egli deve dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie a prevenire l’incidente. Quindi, ad esempio, deve aver vietato esplicitamente alla colf di svolgere determinate attività in sua assenza e deve averle fornito gli strumenti adeguati, conformi alle norme di sicurezza.
La responsabilità del datore è contrattuale, e può essere attivata sia per azioni dirette (fatti commissivi) che per mancati interventi o negligenze (comportamenti omissivi). L’obbligo di diligenza del datore implica la predisposizione di misure atte a prevenire incidenti. Ad esempio, fornire una scala sicura e stabile o assicurarsi che non ci siano ostacoli, come tappeti, che possano causare cadute.
Come dovrebbe comportarsi il datore?
Il datore di lavoro dovrebbe non solo fornire strumenti sicuri, ma anche istruzioni chiare. Ad esempio, se un’attività come smontare le tende è ritenuta pericolosa, il datore dovrebbe espressamente vietarla in sua assenza. Inoltre, dovrebbe assicurarsi che tutti gli strumenti utilizzati siano adeguati e sicuri, sia per le loro caratteristiche intrinseche sia per il modo in cui vengono utilizzati nell’ambiente di lavoro.
Cosa spetta alla colf in caso di infortunio?
Alla colf che si sia infortunata sul lavoro spetta un indennizzo che viene versato dall’INAIL con cui dovrebbe essere assicurata a cura e spese del datore stesso. Vediamo qual è la procedura.
La colf dovrebbe recarsi subito al pronto soccorso e ottenere un certificato medico con l’indicazione delle lesioni. In quella sede deve dichiarare di essersi fatta male lavorando. È essenziale che fornisca dettagli sull’orario, il luogo e le circostanze dell’accaduto. Questo permette al medico del pronto soccorso di determinare se si tratta di un infortunio legato al lavoro o di una malattia dovuta a incidenti esterni. In tal caso aprirà una pratica INAIL. Il certificato rilasciato dal pronto soccorso avrà così indicazione “INAIL SI“.
La colf è tenuta a informare senza indugi il proprio datore dell’incidente. Se non rispetta questo dovere e il datore non denuncia l’accaduto secondo le normative (48 ore), il lavoratore potrebbe perdere il diritto all’indennizzo temporaneo offerto dall’INAIL per i giorni precedenti la comunicazione.
Dal canto suo, il datore è tenuto a comunicare l’infortunio all’INAIL compilando il formulario “4 bis RA” e inviandolo tramite raccomandata A/R o posta elettronica certificata (PEC), includendo il certificato d’infortunio.
Cosa succede se il datore di lavoro è responsabile?
L’infortunio della colf è pagato dall’INAIL sia nel caso in cui il datore sia responsabile che nell’ipotesi di assenza di colpe. Tuttavia nel primo caso, l’INAIL, dopo aver risarcito il dipendente, si può rivalere contro il datore di lavoro. Lo stesso lavoratore potrebbe agire contro il datore per il maggior danno subìto.
Inoltre, in caso di infortunio dovuto alla mancanza di misure di sicurezza sul lavoro, il dipendente – che non può essere licenziato durante la malattia – può restare assente dal lavoro a tempo indeterminato finché non guarisce completamente.
Che succede se la colf è in nero?
Le cose si mettono male per il datore di lavoro se la colf è in nero. In questo caso, non essendoci una copertura INAIL, il danno è integralmente a carico del datore che dovrà pagare ogni spesa. Dovrà risarcire il danno fisico e quello morale. L’importo varierà in base all’entità delle lesioni e all’età della lavoratrice.
Per ottenere la pensione d’anzianità l’avvocato deve per forza cancellarsi dall’albo professionale? La Cassazione offre una risposta chiara.
Quante volte si ha a che fare con avvocati attempati, quasi ottantenni. E ciò perché si ritiene che l’anzianità sia una attestazione di esperienza e quindi di preparazione. Di qui il comune detto secondo cui gli avvocati non vanno mai in pensione. Ma non è vero: anzi, molti legali non vedono l’ora di percepire l’assegno dalla Cassa, specie in questo periodo di crisi. Ed allora, se ancora dietro le scrivanie si trovano professionisti assai maturi, è normale chiedersi se l’avvocato può percepire la pensione se esercita ancora. La cancellazione dall’albo è una condizione per poter ottenere l’assegno pensionistico? Sul punto si è espressa proprio di recente la Cassazione. Vediamo cosa hanno detto, nel caso di specie, i giudici supremi.
Quando l’avvocato ha diritto alla pensione?
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.27049/2023, ha precisato che per avere diritto alla pensione di anzianità, l’avvocato deve essere cancellato dall’albo professionale, cessando di fatto l’attività. Questa cancellazione è il presupposto principale per accedere al trattamento pensionistico di anzianità, a condizione che siano presenti anche altri requisiti come l’anzianità d’iscrizione, di contribuzione e di età.
Cosa stabilisce la normativa previdenziale forense?
La normativa del sistema previdenziale forense è chiara: la pensione di anzianità, che si basa sulla durata dell’attività lavorativa e sulla contribuzione effettiva, viene corrisposta solo a seguito della cancellazione dall’albo degli avvocati. Questa condizione è strettamente collegata alla natura stessa di questa forma pensionistica.
Se un avvocato decide di continuare a esercitare, si pone in una posizione che gli impedisce di ottenere la pensione di anzianità. Né può pretendere un risarcimento a causa della pensione che, per decisione personale, ha scelto di non ricevere.
Qual è stata la vicenda portata di fronte alla Corte?
Il caso in questione riguardava un avvocato che, pur avendo i requisiti per la pensione di anzianità dal 1° aprile 2008, aveva continuato a lavorare. Il Tribunale aveva inizialmente riconosciuto il diritto dell’avvocato al risarcimento del danno per la mancata corresponsione della pensione. Tuttavia, la Corte d’appello aveva successivamente respinto tale decisione. La Corte di Cassazione, infine, ha sottolineato come la Cassa forense avesse ragione nel sostenere che il diritto alla pensione era stato solo posticipato e non negato definitivamente.
Qual è l’importanza della decisione della Corte di Cassazione?
La sentenza della Corte fa chiarezza su un punto fondamentale per gli avvocati: l’accesso alla pensione di anzianità è legato alla cessazione dell’attività professionale. Questa decisione aiuta a definire meglio i diritti e le responsabilità degli avvocati in relazione ai loro obblighi professionali e previdenziali.
Ci si può rifiutare di avere l’amministratore di sostegno? Chi decide per l’amministratore di sostegno e come rifiutare la tutela?
Al posto dell’interdizione e dell’inabilitazione, oggi si usa molto più di frequente l’amministrazione di sostegno (ADS). Si tratta di una misura di protezione volta a tutelare il soggetto impossibilitato – anche solo parzialmente o per un tempo limitato – a provvedere ai propri interessi. Vi si ricorre non solo quando c’è l’esigenza di gestire il patrimonio della persona debole ma anche solo per provvedere alle esigenze di cura della persona.
In questo articolo vedremo se si può imporre l’amministratore di sostegno a chi non lo vuole: l’interessato può rifiutarsi di essere sottoposto a tutela? Chi può richiedere la nomina dell’amministratore di sostegno e chi lo decide? Cerchiamo di fare il punto della situazione.
Che cosa è l’amministrazione di sostegno?
L’Amministrazione di Sostegno è un meccanismo legale previsto per assistere le persone che, a causa di una disabilità o condizione, hanno difficoltà a gestire i propri interessi. È una forma di aiuto più flessibile rispetto ad altre misure come l’interdizione o l’inabilitazione e non implica necessariamente una totale incapacità di intendere o di volere da parte del beneficiario, né un suo completo stato di incapacità.
Chi può ottenere l’amministratore di sostegno?
Si può chiedere l’amministratore di sostegno nei confronti di:
maggiorenni che si trovano in una situazione di grave e lunga incapacità derivante da menomazione fisica o psichica;
minorenni solo nell’ultimo anno della loro minore età;
interdetti o inabilitati ma solo dopo la pubblicazione della sentenza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione.
Chi può chiedere l’amministratore di sostegno?
La richiesta di nomina di un amministratore di sostegno viene presentata in tribunale e può essere avanzata dai seguenti soggetti:
lo stesso interessato all’ADS;
il marito, la moglie o il partner convivente;
i parenti entro il quarto grado o gli affini entro il secondo grado;
il tutore o il curatore;
il P.M.;
i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona.
Chi decide l’amministratore di sostegno?
L’ultima parola sull’individuazione della figura che farà l’amministratore di sostegno spetta chiaramente al giudice. Tuttavia quest’ultimo può ricevere indicazioni dallo stesso interessato.
La scelta ricade preferibilmente sui seguenti soggetti:
il coniuge non separato legalmente o la persona stabilmente convivente;
il padre, la madre, il figlio, il fratello o la sorella;
un parente entro il quarto grado o un soggetto designato dal genitore superstite;
altra persona idonea, anche se non è un familiare.
Il giudice ha ampia libertà nella scelta e può valutare quale sia il miglior soggetto per assicurare la cura e gli interessi del beneficiario.
Si può imporre l’amministratore di sostegno a chi non lo vuole?
La Cassazione (ord. n. 10483/22) ha chiarito che non si può imporre l’amministrazione di sostegno a un soggetto che non lo vuole. E ciò perché il giudice deve tenere conto dell’opposizione dell’interessato soprattutto quando questi è affetto da una disabilità di natura soltanto fisica.
Non si può dunque disporre la misura senza evidenziare in quale misura la patologia di cui soffre il soggetto incida in concreto sulla sua capacità psico-fisica e intralci la gestione del suo patrimonio.
Prima di imporre l’Amministrazione di Sostegno, è fondamentale dunque accertare, attraverso una consulenza tecnica d’ufficio (la cosiddetta CTU) le reali condizioni del soggetto e la sua eventuale capacità di gestire i propri interessi. È inoltre importante ascoltare la volontà del soggetto e considerare soluzioni alternative, come il supporto da parte di familiari.
Cosa accade se il soggetto si oppone all’amministrazione di sostegno?
La volontà del soggetto interessato deve essere presa in seria considerazione. Se il soggetto dimostra la capacità di gestire i propri beni o preferisce alternative all’amministrazione professionale (come il supporto di un familiare), il giudice è tenuto ad esaminare le ragioni dell’interessato prima di decidere sull’imposizione dell’Ads.
Dilazione dei contributi previdenziali dovuti all’Inps: condizioni, modulo, domanda telematica, termini di pagamento, numero massimo di rate concedibili.
I versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali dovrebbero essere regolari e costanti, ma basta un periodo di difficoltà finanziaria per saltare qualcuna delle frequenti scadenze di pagamento, e così i debiti si accumulano in fretta. L’Inps è molto solerte nell’individuare le omissioni, e di solito invia a stretto giro un avviso bonario agli interessati per invitarli a saldare il dovuto.
Questa lettera è un avvertimento: arriva prima di emettere l’avviso di addebito vero e proprio, che comporta l’instaurazione delle azioni esecutive per il recupero coattivo del credito. C’è però la possibilità di non pagare tutto in una volta, ma di dilazionare l’importo dovuto in diverse rate, in relazione all’ammontare complessivo. Vediamo come rateizzare un debito Inps.
Domanda rateizzazione debiti Inps
La domanda di rateizzazione dei debiti Inps può essere presentata, direttamente o tramite un intermediario abilitato (Caf, Patronato, commercialista) online utilizzando la procedura disponibile sul sito dell’Istituto; ma se il debito è antico, ed è già passato all’Agenzia Entrate Riscossione, l’istanza va presentata a quest’ultima, e non all’Inps.
Su questo versante, però ci sono delle novità: mentre dal 2023 è stata introdotta una “tregua fiscale” con varie forme di definizione agevolata delle cartelle esattoriali, l’Inps ha emanato regole più restrittive per le rateazioni in corso e per quelle da chiedere all’Istituto [1].
Rateizzazione debiti Inps: come funziona
In particolare, bastano due rate non pagate, anche non consecutive, per far “saltare” la dilazione già concessa, che viene revocata, mentre con Agenzia Entrate Riscossione è possibile arrivare fino a cinque rate (e in taluni casi sino ad otto) mensilità di mancato versamento senza decadere dal piano di rateazione. C’è da dire, però, che le rate di AER sono mensili, mentre quelle dell’Inps sono, solitamente, trimestrali.
Inoltre, l’Inps applica un principio di unicità della rateazione, in base al quale è necessario che la richiesta includa tutti i debiti contributivi accumulati, comprese le omesse ritenute e le sanzioni, altrimenti la domanda “parziale” viene inevitabilmente respinta; con Agenzia Entrate Riscossione, invece, è possibile rateizzare solo singole cartelle o anche alcuni specifici carichi debitori iscritti in esse.
Avviso bonario Inps: cos’è e come funziona
Per poter domandare la dilazione, innanzitutto, devi aver ricevuto un documento dall’Inps in cui ti si chiede di regolarizzare la posizione contributiva e debitoria: si tratta dell’avviso bonario, una comunicazione di irregolarità inviata dall’Inps che indica il dettaglio delle voci dovute e non ancora versate oltre la scadenza.
Con l’avviso bonario l’Istituto richiede il pagamento di tali importi, prima di emettere l’avviso di addebito, che ha natura esecutiva e perciò comporta l’iscrizione a ruolo dei contributi non versati e delle conseguenti sanzioni. In questa fase di compliance è, quindi, possibile evitare l’affidamento del carico debitorio all’Agenzia Entrate Riscossione e l’esecuzione forzata, pagando interessi e sanzioni ridotte ed anche rateizzando l’importo complessivo, con le modalità che ora ti indichiamo.
Come si regolarizzano i debiti con l’Inps
Se ti è pervenuto un avviso bonario dall’Inps e vuoi regolarizzare la tua posizione devi innanzitutto:
entrare nel cassetto previdenziale per artigiani e commercianti (all’interno del portale web dell’Inps), alla voce “Posizione assicurativa, Avvisi bonari”, per prendere visione degli importi dovuti e delle modalità di pagamento (è comunque inviata una mail di alert ai titolari della posizione contributiva e ai loro intermediari);
pagare i contributi dovuti, le sanzioni e gli interessi tramite modello F24.
In alternativa al pagamento in unica soluzione, puoi domandare la rateazione dei contributi e del carico debitorio accessorio tramite l’apposito servizio online, che si trova sempre all’interno del Cassetto previdenziale. È possibile rateizzare tutti i debiti per omissione o evasione contributiva, compresi quelli per le ritenute previdenziali e assistenziali a carico dei lavoratori.
Domanda di rateazione debiti Inps
Se vuoi inviare all’Inps in via telematica la domanda di rateazione dei debiti contributivi, devi selezionare la voce «Domande Telematizzate» nella pagina Cassetto previdenziale Artigiani e Commercianti. Aprendo il menu a discesa, bisogna cliccare l’opzione «Dilazione».
A questo punto il portale caricherà un form da compilare, nel quale occorre inserire i dati richiesti, e in particolare:
i propri dati anagrafici, il numero codice fiscale e di partita Iva;
un indirizzo pec, e-mail o un numero di fax, per ricevere l’esito della domanda;
la presa visione delle condizioni e dell’informativa sulla privacy;
l’elenco dei debiti da inserire nella richiesta, con gli estremi identificativi di ciascuno (anno, tipo contributo, importo, scadenza);
motivo del mancato versamento dei contributi (crisi aziendale, crisi di settore, ritardo nella riscossione di crediti da parte di enti pubblici, mancata erogazione di finanziamenti pubblici, calamità naturali e accidentali, fatto doloso del terzo accertato giudizialmente).
È poi necessario, barrando le apposite caselle del modulo online:
riconoscere in modo esplicito e incondizionato il debito contributivo denunciato, fatto salvo il diritto per l’Inps ad ulteriori addebiti per errori ed eventuali omissioni;
rinunciare a tutte le eccezioni che possono influire sulla esistenza ed azionabilità del credito dell’Inps, nonché agli eventuali giudizi di opposizione proposti in sede civile;
impegnarsi ad effettuare il versamento della prima rata entro la data indicata nel piano di ammortamento, con la consapevolezza che qualora la stessa abbia una scadenza successiva a 15 giorni dalla data di presentazione della domanda, l’importo sarà pari al numero di rate già scadute in relazione alle mensilità trascorse;
impegnarsi ad effettuare il regolare versamento delle rate uguali e consecutive, accordate con scadenza mensile a 30 giorni dalla data di pagamento della prima rata;
impegnarsi ad effettuare il versamento dei contributi correnti, dovuti mensilmente o periodicamente, a decorrere dalla data di presentazione della domanda.
Cliccando sul pulsante “invia”, la domanda di dilazione viene inoltrata all’Inps in via telematica. L’istanza che abbiamo descritto può essere predisposta e inviata per conto del richiedente anche dagli intermediari autorizzati, come i commercialisti, i Caf e i Patronati.
Domanda rateazione Inps: quando viene accolta?
Come ti abbiamo anticipato all’inizio, la domanda di dilazione potrà essere accolta solo se è stata chiesta la regolarizzazione di tutte le esposizioni debitorie, accertate e denunciate alla data di presentazione della domanda, in tutte le gestioni amministrate dall’Inps, che attualmente, a seguito dell’unificazione con altri istituti assorbiti, sono le seguenti:
Inoltre per il debito da rateizzare non devono risultare, alla data di presentazione della domanda, già emessi i formali avvisi di addebito, né deve essere stato attivato il recupero tramite l’Agenzia Entrate Riscossione o gli uffici legali dell’Inps.
Rateazione Inps: come sapere se è stata accolta
Per conoscere l’esito della domanda di dilazione, devia aprire il menu a discesa dalla voce Domande telematizzate, e cliccare su «Esiti lavorazioni». In caso positivo, comparirà il piano di ammortamento con l’indicazione delle rate, degli importi e delle scadenze di ciascun versamento, e del tasso di interesse applicato (è quello legale vigente al momento di presentazione della domanda).
Il piano di rateazione si considera accettato dal contribuente con il pagamento della prima rata entro il termine comunicato.
Dilazione debito Inps: quante rate?
La dilazione può avere un massimo di:
6 rate trimestrali, se il debito è inferiore a 2mila euro;
20 rate trimestrali, per i debiti pari a un minimo di 5mila euro;
negli altri casi, la rateazione può arrivare ad un massimo di 24 rate;
in alcune ipotesi speciali (calamità naturali, crisi aziendali, procedure concorsuali) è possibile richiedere, previa autorizzazione del Ministero del Lavoro, l’estensione del pagamento fino a 36 rate;
nei casi di incertezza dell’obbligo contributivo o di fatto doloso del terzo denunciato all’autorità giudiziaria, è ammesso il prolungamento della dilazione sino a un massimo di 60 rate.
Come la legge di bilancio 2024 cambia il panorama delle pensioni di vecchiaia, quota 103, Ape sociale, Opzione donna, pensione di vecchiaia anticipata.
La legge di bilancio 2024 riscrive il quadro di tutte le pensioni dal 2024, peggiorando i requisiti previsti dalla famigerata e tanto criticata Legge Fornero. Assegni più bassi ed età minima a 63 anni sono alcuni dei punti sui quali il Governo modifica le regole passate. Ma procediamo con ordine e vediamo, voce per voce, come cambia la previdenza in Italia a partire dal 2024.
Pensione di vecchiaia nel 2024
Per il 2024, l’accesso alla pensione di vecchiaia sarà consentito a coloro che avranno raggiunto i 67 anni di età e avranno accumulato almeno 20 anni di versamenti contributivi, raggiungendo così la cosiddetta “quota 87”. Tale soglia di età resterà invariata fino al termine dell’anno. Tuttavia, è previsto che nel 2025 l’età pensionabile possa subire un lieve incremento, portandosi a 67 anni più un incremento di 2 o 3 mesi, in linea con l’aggiustamento legato all’aspettativa di vita.
In alternativa, la pensione di vecchiaia anticipata sarà ottenibile nel 2024 con un’anzianità contributiva di 42 anni e 10 mesi, a prescindere dall’età anagrafica; per le donne il requisito è leggermente inferiore, fissato a 41 anni e 10 mesi di contributi. Al momento, non sono previsti aggiustamenti legati all’aspettativa di vita per questa forma di pensione anticipata, anche se non si esclude che possano essere introdotte novità a partire dal 2025.
Quota 103 dal 2024
Dal 2024, la Quota 103, che consente di andare in pensione anticipata con 62 anni di età e 41 anni di contributi, subirà delle modifiche rispetto alla normativa introdotta nel 2023:
Calcolo della pensione. L’intera pensione sarà calcolata con il sistema contributivo, anche per gli anni lavorati prima dell’1/1/1996, che fino alla fine del 2023 restano calcolati con il sistema retributivo. Questo si applica a chi aveva più di 18 anni di contributi al 31/12/1995 fino all’introduzione del sistema contributivo pro rata con la legge Fornero il 31/12/2011.
Limite massimo dell’assegno pensionistico. Fino al raggiungimento dei 67 anni, l’importo della pensione non potrà superare le quattro volte il trattamento minimo INPS, corrispondente a circa 2.272€ lordi al mese. Per il 2023, il limite è fissato a cinque volte il trattamento minimo, circa 2.800€ al mese.
Finestre mobili. Il periodo di attesa tra il raggiungimento dei requisiti pensionistici e l’erogazione della prima rata di pensione aumenta. Nel 2024, sarà di 7 mesi per i dipendenti privati e di 9 mesi per i dipendenti pubblici, rispetto ai 3 e 6 mesi previsti per il 2023.
Divieto di lavoro. Con l’opzione per Quota 103 si applica il divieto di cumulare redditi da lavoro con la pensione fino a 67 anni.
Opzione di contribuzione per lavoratori dipendenti. I lavoratori dipendenti che continuano a lavorare dopo aver maturato i requisiti per la pensione possono chiedere di ricevere in busta paga il 9,19% di contributi a loro carico, mentre la parte a carico del datore di lavoro sarà versata all’INPS. I contributi ricevuti in busta paga non aumenteranno l’ammontare della pensione e saranno soggetti a tassazione IRPEF.
Alternative più conveniente per i lavoratori. Rimane più vantaggioso optare per l’uscita con 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, e 41 anni e 10 mesi per le donne, senza limiti di età, solo 3 mesi di finestra mobile e senza le restrizioni della Quota 103.
Regime transitorio. Chi ha maturato i requisiti per Quota 103 entro il 31 dicembre 2023 può richiedere la pensione nel 2024 mantenendo le condizioni più favorevoli della normativa vigente nel 2023. Questo vale anche per coloro che hanno maturato i requisiti per Quota 100 e Quota 102 entro i rispettivi termini del 31/12/2021 e del 31/12/2022.
Nuova Opzione donna dal 2024
Per l’anno 2024, i criteri di accesso al pensionamento anticipato tramite l’Opzione donna si sono inaspriti rispetto al 2023, riservandosi alle seguenti categorie di lavoratrici:
Categorie ammesse
a. Lavoratrici licenziate o impiegate in aziende che sono oggetto di tavoli di crisi presso il Ministero.
b. Donne con un grado di disabilità riconosciuto pari o superiore al 74%.
c. Donne che assistono, da almeno sei mesi, familiari disabili gravi (legge 104/1992) conviventi di primo o secondo grado di parentela, l’opzione è estesa agli ultra 70enni.
Requisito anagrafico
L’età minima richiesta per accedere all’Opzione donna sale da 60 a 61 anni, mantenendo il requisito di 35 anni di contribuzione.
Per ogni figlio, l’età minima si abbassa di un anno, con un limite massimo di riduzione di due anni (61 anni senza figli; 60 anni con un figlio; 59 anni con due o più figli).
Calcolo della pensione
La pensione viene calcolata interamente con il metodo contributivo.
All’età di 61 anni, si stima una riduzione della pensione del 18/20% applicando i coefficienti in vigore nel 2023.
Finestre mobili
Per le lavoratrici dipendenti, il periodo di attesa per l’erogazione della pensione dopo aver maturato i requisiti è di 12 mesi.
Per le lavoratrici autonome, il periodo di attesa è di 18 mesi, portando l’età effettiva di accesso a circa 62 anni e mezzo per chi non ha figli.
Cristallizzazione del diritto
È possibile richiedere la pensione anche dopo il periodo immediatamente successivo alla maturazione dei requisiti (inclusa la finestra mobile), senza limiti temporali.
Cumulo con redditi da lavoro
La pensione ottenuta con Opzione donna può essere cumulata con altri redditi da lavoro, come qualsiasi altra pensione.
Queste norme si applicano alle lavoratrici che maturano i requisiti per l’Opzione donna nell’anno 2024.
Ape sociale
L’istituto dell’Ape Sociale è stato esteso fino al 31 dicembre 2024, tuttavia si registra un incremento dell’età minima richiesta per accedere al beneficio, passando da 63 anni a 63 anni e cinque mesi. Di seguito, le istruzioni per la comprensione dei requisiti e delle condizioni di accesso all’Ape Sociale per l’anno 2024:
Requisito Anagrafico Modificato
L’età necessaria per l’accesso all’Ape Sociale è ora di 63 anni e 5 mesi.
Categorie di lavoratori ammessi
a. Lavoratori disoccupati che abbiano raggiunto i 63 anni e 5 mesi di età con almeno 30 anni di contributi, in seguito a terminazione involontaria del rapporto di lavoro, inclusi coloro che hanno terminato i periodi di disoccupazione retribuita come la Naspi.
b. Persone con disabilità riconosciuta pari o superiore al 74%, con 63 anni di età e 30 anni di contributi.
c. Lavoratori di 63 anni con 30 anni di contribuzione che assistono familiari disabili gravi da almeno 6 mesi, secondo quanto stabilito dalla legge 104/1992, se si tratta di parenti di primo o secondo grado per gli over 70.
d. Dipendenti che esercitano professioni “gravose” da almeno 63 anni con 36 anni di contributi e che hanno svolto per almeno sei anni negli ultimi sette, o sette anni negli ultimi dieci, attività elencate nell’Allegato n. 3 della legge n. 234/2021.
Vincoli di cumulabilità
Per il 2024, è prevista l’incumulabilità totale dell’Ape Sociale con redditi da lavoro dipendente o autonomo, ad eccezione del lavoro occasionale, fino a un massimo di 5.000€ annui.
Calcolo dell’assegno
L’importo dell’assegno viene determinato attraverso un sistema misto con un limite massimo di 1.500 euro lordi mensili.
L’assegno non include la tredicesima e non è soggetto agli adeguamenti per l’inflazione fino a quando non si raggiunge l’età per la pensione di vecchiaia, fissata a 67 anni.
Tali disposizioni sono valide per chi intende richiedere l’Ape Sociale nell’anno 2024.
Taglio delle pensioni dei dipendenti pubblici
La legge di bilancio introduce una revisione al ribasso delle pensioni per alcuni dipendenti pubblici. Le disposizioni riguardano il calcolo delle pensioni maturate prima del 31 dicembre 1995 da parte di lavoratori iscritti a determinate casse di previdenza, gestite in passato dal Tesoro e attualmente dall’INPS, a seguito dell’assorbimento dell’Inpdap. Le casse interessate includono:
CPDEL: Cassa Pensioni Dipendenti Enti Locali
CPI: Cassa Pensioni Insegnanti
CPS: Cassa Pensioni Sanitari
CPUG: Cassa Pensioni Ufficiali Giudiziari
Le modifiche si applicheranno ai lavoratori che, alla data del 31 dicembre 1995, avevano meno di 15 anni di contributi e che andranno in pensione a partire dal 1° gennaio 2024.
Procedura di Calcolo delle Pensioni
Si verificherà una diminuzione dell’importo delle pensioni calcolate sui contributi versati prima del 1996.
Le vecchie aliquote di rendimento, giudicate eccessivamente vantaggiose secondo le leggi n. 965/1965 e n. 16/1986, saranno sostituite dalle aliquote attuali applicate ai lavoratori dipendenti privati, circa il 2% per ogni anno di lavoro.
Impatto della revisione
Ci sarà una riduzione sostanziale delle pensioni. Ad esempio, per un reddito lordo di 30.000 euro si stima una perdita superiore ai 4.320 euro annui, mentre per un reddito di 50.000 euro la perdita potrebbe avvicinarsi ai 7.390 euro.
La diminuzione percentuale annuale dell’assegno pensionistico potrebbe variare tra il 5% e il 25%, da calcolare sulla base dell’aspettativa di vita media.
Circa 700.000 lavoratori pubblici saranno interessati da questa misura, inclusi approssimativamente 3.800 medici.
La natura retroattiva della misura e l’assenza di un’applicazione proporzionale (pro-rata) sollevano dubbi sulla sua costituzionalità.
A causa di queste preoccupazioni e per evitare una potenziale ondata di pensionamenti anticipati, soprattutto nel settore medico, si prevede che il Governo apporterà delle modifiche alla normativa.
È pertanto essenziale monitorare gli aggiornamenti legislativi per capire le modifiche definitive che saranno adottate.
Pensione di vecchiaia anticipata
La legge di bilancio per il 2024 modifica i criteri di accesso alla pensione di vecchiaia anticipata. Nonostante la legge del 2019, sostenuta dalla Lega, che ha introdotto la quota 100 e il reddito di cittadinanza bloccando l’adeguamento dei requisiti pensionistici fino al 31 dicembre 2026 (come definito dalla riforma Fornero a 42 anni e 10 mesi di contribuzione per gli uomini e un anno in meno per le donne), la nuova normativa anticipa di due anni, al 2025, l’adeguamento automatico alla speranza di vita.
Ecco i cambiamenti principali.
Dal 2025, per accedere alla pensione anticipata sarà necessario aver accumulato più di 43 anni di contributi, a prescindere dall’età.
Questo contrasta con la possibilità di ottenere la pensione di vecchiaia a 67 anni anche con soli 20 anni di contribuzione, situazione che può beneficiare di integrazioni e maggiorazioni previste per coloro che hanno versato limitati contributi nel corso della vita.
L’attuale sistema sembra presentare una distorsione, privilegiando chi raggiunge la soglia d’età ma con meno anni di contributi a discapito di chi, avendo contribuito per oltre 42 anni, si vedrebbe precluso l’accesso alla pensione anticipata.
Si attendono eventuali correzioni o modifiche normative che possano riequilibrare questa discrepanza, tenendo conto anche delle prassi adottate nella maggior parte dei Paesi membri dell’UE e dell’OCSE.
Sarà importante monitorare le decisioni legislative future per valutare gli impatti concreti su chi si appresta ad andare in pensione e per poter pianificare adeguatamente la propria situazione previdenziale.